Zastrozzi. Cosa sei disposto a fare per essere felice?
Avrei potuto intitolare questa riflessione Il romanzo gotico di Shelley, ma la maggior parte dei lettori avrebbe forse pensato a Frankestein o Il moderno Prometeo di Mary Wollstonecraft Godwin in Shelley. L’irriverente poeta inglese è infatti conosciuto soprattutto per la sua arte poetica, per la vita tormentata e per quelle teorie – all’epoca così rivoluzionarie – che ancora oggi ci sembrano attuali. Pochi, però, sanno che scrisse anche prosa, per giunta di genere.
Cosa sei disposto a fare per essere felice?
L’interrogativo è pertinente e ci tocca da vicino. Quando l’uomo perse la possibilità di essere felice? La ricerca dell’armonia è il filo rosso che accompagna da sempre la vita dell’uomo; secondo la religione cattolica, l’uomo perse il Paradiso terrestre dopo aver disobbedito a Dio e aver assaggiato il frutto proibito dell’albero della conoscenza del bene e del male. Il celebre pomo, offerto alla donna dal serpente – un tempo simbolo di fecondità e, successivamente, di inganno – avrebbe reso gli uomini pari alla divinità che condivideva con loro lo splendido scenario.
Il severo e giusto padre avrebbe dunque punito i figli sedotti dal peccato e mossi dalla concupiscenza, fino a far provare loro vergogna per il proprio corpo nudo. Il castigo strappò l’uomo e la donna dalla felicità e li gettò in un mondo di fatica, di dolore e di mortalità, allontanandoli dall’albero della vita e dall’eternità.
Un gesto aveva sottratto all’umanità la serenità che l’aveva accompagnata fin dal momento della generazione. L’infelicità terrena, i tormenti delle rivoluzioni, le atrocità delle guerre, gli incubi delle macchine, l’abbandono delle terre avevano risvegliato sordi incubi che vagavano nelle notti degli artisti, fatte di laudano, sogni infestati e quella terribile attrazione per i secoli bui del Medioevo.
Eccoli, i castelli diroccati, le cupe foreste e i malefici degli umani: sono ingredienti che tutti conosciamo e che hanno caratterizzato le storie di paura delle nostre infanzie.
A essi si aggiunse il romanticismo, lo struggente sentimento verso l’amata; la lotta tempestosa tra passione e candore, seduzione e amor cortese.
Di questi ingredienti era composto il romanzo gotico che tutti siamo abituati a conoscere. Molti autori l’hanno reso celebre. Anche il nostro Percy, appena adolescente, scrisse questo genere.
Non ancora diciottenne pubblicò Zastrozzi, il primo dei due romanzi gotici dell’autore. All’epoca, nel 1810, era ancora uno studente dell’Eton College; la vita, là, non era facile per uno come Percy: troppo strambo e troppo ribelle per i benpensanti che lo circondavano. Agli episodi di bullismo rispose non con placida rassegnazione, ma con esplosioni di rabbia che andarono a rafforzare il profondo disgusto contro ogni forma di autorità e conformismo. Si ammalò, forse fu persino sospeso. Solo nel 1808, grazie al trasferimento in una stanza sopra lo studio del dottor Bethel, il giovane poté ritrovare un briciolo dell’armonia perduta: la scienza e l’occulto si intrecciarono in una formula alchemica, fatta di spiriti, incantesimi e stregonerie. Di che natura erano i demoni che si erano impossessati della sua mente e delle sue paure? In un preciso momento, Percy ebbe la sensazione che il Diavolo in persona lo stesse seguendo.
La vicinanza con il dottor James Lind, insegnante, intellettuale ed esploratore, contribuì all’insorgere nel giovane della consapevolezza che, per combattere le tirannie, l’unica arma possibile fosse l’apprendimento. L’uomo divenne per il giovane Percy una guida spirituale.
Con la pubblicazione di Zastrozzi, Shelley rinunciò all’appellativo Mad e si guadagnò quello di the Eton Atheist. Questo potrebbe facilmente trarci in inganno: non fu nominato così per le sue ideologie religiose, ma per la sua capacità di ribellarsi all’autorità scolastica. Si meritò il titolo non per un’ipotetica affermazione sull’assenza di Dio, ma per il rifiuto sociale che abbracciò e che caratterizzò tutta la sua vita.
Prima di approdare a Oxford per un breve periodo, Shelley liberò sé stesso e i suoi demoni, festeggiando la fine della sua oppressione.
Zastrozzi fu, dunque, il primo romanzo gotico di Percy Bysshe Shelley. L’opera abbracciò e travolse la tradizione. Se, infatti, sono presenti le peculiarità del genere, dall’altra il vero terrore non è dato dalla foresta in tempesta (teatro degli incontri di Zastrozzi e Matilde) o dai palazzi, ma dai pensieri e dai sentimenti dei personaggi. Non un terrore fine a sé stesso, ludico. Quello di Zastrozzi è un viaggio nell’anima umana, nelle ambiguità e negli abissi che la caratterizzano. Non sono i luoghi a essere infestati, ma le menti, animate da desideri di vendetta, di possesso, d’amore o di pace. Già si trovano, accennati ma percepibili, lo sdegno sociale e politico, la rabbia, l’incapacità di trovare un posto da chiamare realmente casa.
Shelley aderisce a questo genere e lo supera perché mette a nudo l’uomo, la sua incapacità di districarsi tra due forme contrapposte d’amore, la sua terribile (e temibile) voglia di essere felice.
Il retroscena, certamente, è tipico della letteratura tragica anteriore: la vendetta.
Ecco i giochi di potere di Zastrozzi, gigantesca e tetra figura, personificazione del desiderio assoluto di gioia; quella gioia che solo sulla Terra è possibile provare, lontano da Inferno e Paradiso, da castigo e da beatitudine eterna.
La felicità, quella vera, è un sorriso sprezzante ed esultante, appagato per il sangue ottenuto e del tutto incurante della vita dopo la morte. Il villano del romanzo tradizionale si è beffato delle leggi umane e divine: poco importa se sarà dannato; realizzando la propria vendetta, è stato felice. Di fronte al tribunale dell’inquisizione, un velo di disprezzo e di trionfo animano il suo volto: egli si erge a semidio e, ridendo, muore alla ruota senza manifestare smorfie di dolore. Prometeo ancor grezzo, Zastrozzi ha liberato gli uomini dal binomio colpa/dannazione, godendo dell’obiettivo raggiunto nonostante la corruzione compiuta, il sangue versato e la punizione fatale. Per lui la morte spezza le ultime catene e, in assenza di un essere superiore, la superstizione cade e lascia il posto alla libertà.
Al pentimento, invece, approda Matilda, dopo essersi rivelata seduttrice ossessiva di Verezzi e dopo esser stata manipolata da Zastrozzi. Ciò che l’aveva mossa era la pulsione sessuale, quel desiderio tutto umano e carnale di possedere l’altro. La felicità come appagamento delle passioni è la soluzione che l’abile Prometeo le rivela, tenendola all’oscuro delle sue sincere motivazioni. Matilda deve far tacere la propria coscienza e abbandonare i dubbi religiosi sulla salvezza della sua anima. La donna, da spietata seduttrice, si finge dolce e compassionevole, ottenendo prima la stima, poi l’amore di Verezzi. Dopo aver perso il marito e ucciso l’avversaria, Matilda pensa di suicidarsi, ma teme le pene eterne che potrebbero attenderla. Viene, dunque, imprigionata. In un primo momento è solo il dolore per il piacere infranto a sconvolgere il suo cuore; dopo la visione di Dio in sogno, invece, la donna mostra un sincero pentimento ed è intimorita dai tormenti eterni che la attenderanno.
Non restano che gli ultimi due personaggi: l’eroe buono, combattuto, indeciso, spesso privo di sensi; la donna amata e angelicata, sublime ed eterna anche dopo la morte.
Verezzi, oggetto di passioni distruttive quali vendetta e carnalità, incapace di resistere nella propria posizione; lo vediamo cedere alle lusinghe, poi alla follia. È il senso di colpa a divorare l’uomo imprigionato nel dubbio amoroso: purezza o passione? In un parossismo di dolore e di seminfermità fisica e psichica resta imbrigliato il giovane uomo che trova liberazione solo nella morte che si infligge dopo l’apparizione di Giulia. Bella, eterea, aleggia come uno spettro per buona parte della storia, ma l’unica cosa che compie è morire sotto i colpi di pugnale di Matilda.
La sensazione, alla fine della lettura, è che il giovane Shelley si sia molto interrogato sulla ricetta della felicità. Da alcuni studiosi Zastrozzi viene definito il primo romanzo ateo, viste le convinzioni del malvagio e della seduttrice. Credo, in realtà, che in uno stato ancora primordiale, siano presenti i tormenti di Percy: superare i limiti, giocare con la morte, essere indipendente e felice. Come imprigionato in un pendolo, Shelley è frastornato da due rumori contrastanti: lo strusciare delle catene e l’urlo della libertà; la voce tremolante di Verezzi e quella imponente di Zastrozzi. Il poeta è dentro entrambi i personaggi perché ne conosce le afflizioni. Si fa cantore anche della parte femminile, finendo in un vortice che non conosce felicità, ma solo distruzione e autodistruzione.
Se avessi, dunque, potuto apporre un sottotitolo al sottotitolo, non avrei esitato a scrivere: A distruggere e distruggerti? Chi conosce la vita di Percy sa quanto la sua fame di conoscenza e di gioia l’abbia spinto oltre ogni limite. Secondo alcuni addirittura oltre la vita stessa.
Perché Dio ha creato l’uomo e ha posto le condizioni della sua infelicità? Perché ha creato il male, il Demonio, le occasioni di danno? Perché ha posto nette barriere ai sentimenti come amicizia e amore? Perché ha aspettato così tanto tempo prima di inviare il proprio figlio, l’unico in grado di redimere l’umanità dal peccato originale? La misericordia di Dio appare impalpabile e incomprensibile all’uomo, mentre i dettami religiosi assumono le tinte oscure di superstizione.
L’unico abbraccio per l’uomo è quello della natura, che con lui sente e soffre.