VISIONI, “Quando il silenzio sarà come una viva parola fecondo”

VISIONI

“QUANDO IL SILENZIO SARA’/ COME UNA VIVA PAROLA FECONDO”
di Valter Marcone

Ecco un elenco di vocaboli tutti da “Etimologiario” o pressapoco , un libro di Maria Sebregondi pubblicato da Quodlibet ; un piccolo dizionario etimologico di tipo assolutamente fantastico, dove le inedite etimologie, tolte da segmenti della parola, rivelano una loro buffa giustezza, in un cortocircuito interno alla parola che sorprende, fa sorridere e ne espande inaspettatamente il significato.

asola s. f. (a- priv.) – mai sola. Sempre accompagnata da un bottone.
ambizione :l’uno e l’altro ,entrambi
baldanza: tra ballo e danza
crepuscolo: crepa tra il tempo del giorno e della notte
libertà: essenza astratta del libro
ufficio: da uffa lo sbuffare per le incombenze burocratiche o del proprio stato
nuvola: un nulla che vola
cin-e-fili : ovvero cin-o-fili che amano i cani protagonisti di film

Un modo ameno divertente e forse edificante di rivedere e risentire le parole: “da quando i nomi si cullano nelle cose facciamo un segno e ci risponde un segno” diceva in due versi Ingborg Bauchmann in una delle poesie di “Invocazione all’orsa Maggiore”. Così che ogni definizione diventa un micro-racconto di parole, una poesia semplice e leggera che si trasforma in un incanto magico e speciale .
Scrive Flavio Ermini in “ Guarire le parole” pubblicato sulla rivista on line Ulisse, dicembre 2021:  “Noi pronunciamo parole riflesse, consapevoli come siamo del nostro destino di esseri senza dimora. Parliamo parole seconde, derivate, che non creano ma interpretano parole che derivano da altre parole ancora: le parole prime pronunciate dai nomotheti, i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo.
La lingua delle origini è tramontata e con essa la sua capacità di creare. Il poeta avverte questa
lontananza e ne soffre. Così come patisce l’estraneità del presente.
Ecco perché cerca di pronunciare una parola che non rispecchi semplicemente eventi e cose, ma faccia segno all’unità preriflessiva e preconcettuale che ha preceduto il pensiero cosciente e razionale. Ecco perché lascia riaffiorare nelle parole riflesse ciò che resta in esse di non detto, consentendo l’emergere di un dire che ci preesiste: quella “vera narratio” vichiana, dove fantasia e conoscenza sono una cosa sola. Giungendo a codificare nella frase poetica non solo un’espressione artistica, ma anche vere e proprie forme di sopravvivenza.(1)

Definire le parole che ci aiutano a definire il mondo . Quindi soprattutto le parole dei poeti e la loro capacità di inventare e reinventare il mondo. A volte di curarlo e di guarirlo . Anche se il poeta dice sempre la stessa cosa concedendosi il lusso dei versi. Ad ogni poeta è affidato un pezzettino di mondo a cui dedica la sua attenzione ripetendo all’infinito sempre la stessa cosa . Qualche volta è come una ossessione ,cosa che capita anche in pittura. Pensiamo per esempio a Rembrandt e all’ossessione che ebbe per i suoi autoritratti con dipinti, disegni, acqueforti . O per esempio ad un quadro magistrale, bellissimo : “Le tre età dell’uomo” di Giorgione ,un modo di dire “uomo” con una lingua visiva che dice sempre la stessa cosa , che si occupa solo di un pezzetto di questo uomo: una volta la giovinezza, poi la maturità, poi la vecchiaia ma quel pezzetto detto così è tutto l’uomo , l’intera essenza di una natura che è sempre la stessa malgrado le tre inflessioni diverse. E anche Giorgione e Rembrandt come i poeti si occupano ossessivamente di una piccolissima porzione di mondo .

Una ossessione ,una continua ripetizioni e non parlo di allitterazioni per così dire ripetizione di suoni, quindi di lettere o sillabe all’interno della stessa frase. Parlo di ben altro. Parlo di quella ripetizione, a livello tanto tematico e ideologico quanto formale, che si impone da subito come uno degli elementi fondamentali della poesia di Pascoli. Elementi stilistici ma anche ideologici : è la morte del padre, l’attaccamento alle sorelle , il ripiegarsi sull’infanzia che però compongono dunque un mondo che viene ripetuto e che è parte del mondo più grande , che appartiene al mondo grande e quindi appartiene e tutti noi . Noi che leggendo troviamo dunque un giovamento per la nostra vita e i nostri problemi dimostrando come le parole di un poeta sanno curare e guarire le parole che poi noi usiamo comunemente.

Ed è la stessa cosa nelle ossessioni per esempio di un poeta come Sandro Penna che nella sua originalità sembra far coppia con l’antinovecentismo di Saba, Bertolucci, Caproni. Ebbene Penna con la sua libido più ricca di tutto il Novecento sembra scrivere versi semplici che in realtà sono lavorati e rifiniti e che affrontano tutti lo stesso tema :

Sempre fanciulli nelle mie poesie!
Ma io non so parlare d’altre cose.
Le altre cose son tutte noiose
io non posso cantarvi Opere Pie

con una contraddizione notata dal critico e poeta Franco Fortini a proposito della poesia di Penna la “nitida e lacerante contraddizione tra il desiderio (o il piacere) e la sua fugacità” (F. Fortini, I poeti del Novecento, in Letteratura italiana Laterza, a cura di Carlo Muscetta, vol. 63, Bari, Laterza, 1977, p. 94).

Che poi è lo stesso compito che si assume Eugenio Montale , quello di andare oltre le apparenze, le costruzioni artificiose dei versi, indagando la condizione esistenziale dell’uomo moderno. Ecco da Ossi di seppia , una vera e propria meditazione sulla crisi di certezze dell’uomo contemporaneo,

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
Ho usato la parola ossessione per delimitare i confini di mono-temi che si ripetono nell’opera di alcuni poeti in modo continuo, battente, lacerante. In condizioni per così dire di normalità.

Insomma lo stesso modo di affrontare la realtà e quindi di descriverla monotematicamente ,che non è una realtà normale come può essere la vita in guerra, l’esperienza del fronte vissuta da due poeti Franco Fortini e Giuseppe Ungaretti al pari di altri due libri che
recano evidenti tracce degli effetti della Seconda guerra mondiale, cioè il Diario d’Algeria di Sereni e La bufera e altro di Montale.

“Foglio di via e altri versi” viene pubblicato la prima volta nel 1946; raccoglie testi scritti dal 1938 al 1945, un arco cronologico segnato da uno degli eventi collettivi più tragici della storia contemporanea: la Seconda guerra mondiale. La maggioranza delle poesie fu composta negli anni di guerra, quando il soldato Fortini, chiamato alle armi nel luglio del 1941, fu assegnato prima a Milano, che abbandonò, dopo l’Armistizio dell’8 settembre, per rifugiarsi in Svizzera che mantenne in quella guerra la neutralità e che lo stesso Fortini definì come “rifugio della libertà”:

Se, sperando con te, dalle sere d’aprile verrà
La gioia delle estati fedeli
E un sole sui volti profondo;

Quando il silenzio sarà
Come una viva parola fecondo,

E un giusto dolore con radici di quercia
Stringerà i giorni; se i giorni
Presi a noi giusti torneranno liberi;

Compagni, se tutto non è finito…

Le poesie più famose di Giuseppe Ungaretti sono sicuramente quelle sulla guerra, che fanno parte della raccolta L’Allegria. Ed è lo stesso poeta che ricorda così quella esperienza:
«Ero in presenza della morte, in presenza della natura, di una natura che imparavo a conoscere in modo terribile. Dal momento che arrivo ad essere un uomo che fa la guerra, non è l’idea di uccidere o di essere ucciso che mi tormenta: ero un uomo che non voleva altro per sé se non i rapporti con l’assoluto, l’assoluto che era rappresentato dalla morte. Nella mia poesia non c’è traccia d’odio per il nemico, né per nessuno; c’è la presa di coscienza della condizione umana, della fraternità degli uomini nella sofferenza, dell’estrema precarietà della loro condizione. C’è volontà d’espressione, necessità d’espressione, nel Porto sepolto, quell’esaltazione quasi selvaggia dello slancio vitale, dell’appetito di vivere, che è moltiplicato dalla prossimità e dalla quotidiana frequentazione della morte. Viviamo nella contraddizione. Posso essere un rivoltoso, ma non amo la guerra. Sono anzi un uomo della pace. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte si illudono e si mettono dietro alle bubbole». (Giuseppe Ungaretti in L’allegria pag. 520 – 521).

VEGLIA
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
Buttato vicino
A un compagno
Massacrato
Con la bocca
Digrignata
Volta al plenilunio
Con la congestione
Delle sue mani
Penetrata
Nel mio silenzio
Ho scritto
Lettere piene d’amore
Non sono mai stato
Tanto
Attaccato alla vita.

Dicevo della lingua del poeta che racconta in vari contesti per così dire normali, naturali, anormali , straordinari , innaturali sempre il consumarsi dell’esistenza, delle cose che le appartengono , del mondo in generale . Una esistenza che appartenendo alla condizione umana inesorabilmente fa anche i conti con il tempo., il disfacimento del corpo fisico e quindi trasforma le parole che indicano questi momenti della trasformazione, in segni.

Gli antichi Greci e ancora oggi molte religioni parlano di un andamento ciclico non solo per eventi della natura ma anche per la vita dell’uomo. Ritornare in un eterno moto ciclico. Che purtroppo la moderna concezione del tempo ha mandato in pensione mettendo l’accento sul fatto che la nostra vita è uno spezzone di tempo che ad un certo punto inesorabilmente si interrompe. E allora si interrompe anche la visione del poeta che cerca le parole e i segni per sfuggire a questo scacco?

Per sfuggire a questo scacco mi sembra significativa la vicenda letteraria del Diario Postumo di Eugenio Montale. Secondo disposizioni testamentarie quelle ottantaquattro poesie che oggi si possono leggere appunto in quel Diario, edito a cura di R. Bettarini, Milano, Mondadori, 1996, dovevano essere pubblicate postume con una cadenza di sei liriche all’anno . Sei liriche l’anno per undici anni tranne l’ultima busta aperta nel 1996 che ne conteneva diciotto. Una stratagemma per ingannare il tempo e quindi anche in questo caso evitare una immediata interruzione con la morte . Anche se viene da pensare in riferimento all’ultimo gruppo di poesie, diciotto, che anche lui si era stufato del tempo , quello che non gli apparteneva più perché forse era pieno di cose che non condivideva più viste da chissà quale altrove.

Un “caso filologico” quello del Diario Postumo di Montale che tanto ha diviso la critica e che però ci intriga molto perchè ci fa porre una domanda : esistono altri diari poetici nella letteratura italiana? Ma questa è un’altra storia.

Sfuggire allo scacco del tempo. Lo sa bene il poeta e lo sapevano Proust e Joyce, Borges e Valéry, Baudelaire e Musil che con le loro opere sembrano costruire un ponte emotivo e razionale tra uomo e tempo,Come per esempio nell’intero Canzoniere di Petrarca. E lo sapeva benissimo Catullo

«Vivamus, mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis.
Soles occidere et redire possunt;
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
Da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum;
dein, cum milia multa fecerīmus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.» (2)

“…Parole che derivano da altre parole ancora: le parole prime pronunciate dai nomotheti, i sapienti antichi che con la nominazione dei luoghi e delle cose crearono il mutevole orizzonte del mondo.” scriveva Ermini permettendoci di guardare dunque ai poeti e alle parole dei poeti come parole di saggi che costantemente rinnovano il mondo .Parole come talismani che servono come dice Borghes : “all’esercizio delle lettere, la vaga erudizione, le gallerie della Biblioteca, le cose comuni, le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno…” che per lui significava l’idea di una letteratura che crea i propri lettori creando un nuovo genere letterario.

Parole che il poeta usa come le usa Wislawa Szymborska . Nobel per la letteratura” che viene definita a “Mozart della poesia”, una donna che mescola in poesia l’eleganza del linguaggio con “la furia di Beethoven” e affronta temi seri con grande humour. O come Il fanciullino di Pascoli che descrive la capacità di stupore infantile da conservare anche in età adulta. Oppure pensando alla poetica leopardiana secondola quale la poesia ha bisogno di una lingua vaga e indeterminata per suscitare illusioni potenti come spesso ricorda anche nelle riflessioni contenute nello Zibaldone . E gli esempi potrebbero continuare .

Ma “il poeta non scrive pensando alle parole, ma guardando il mare” per regalarlo a chi legge e lo sente anche diverso dal mare. Tu che leggi poesie che parole sei disposto ad ascoltare dal poeta ?

(1)https://rivistaulisse.files.wordpress.com/2021/12/ulisse-1.pdf

(2)«Viviamo, o mia Lesbia, e amiamoci,
e le dicerie dei vecchi severi
consideriamole tutte di valore pari a un soldo.
I giorni possono tramontare e risorgere;
noi, quando una buona volta finirà questa breve vita,
dobbiamo dormire un’unica notte eterna.
Dammi mille baci, poi cento,
poi ancora mille, poi di nuovo cento,
poi senza smettere altri mille, poi cento;
poi, quando ce ne saremo dati molte migliaia,
li mescoleremo, per non sapere (il loro numero)
e perché nessun malvagio ci possa guardare male,
sapendo che qui ci sono tanti baci.»

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