Till Lindemann – La poesia come oscenità e violenza

Till Lindemann – La poesia come oscenità e violenza

 

Crude, volgari e sacrileghe dei paradigmi, le poesie contenute in questo libro colpiscono basso e subito, a partire da quella di apertura, Sinfonie (trad. Sinfonia) dove l’autore non ha problemi a parlare di sfinteri che si ritraggono e tremano, per comunicare al lettore la paura atavica che attanaglia l’uomo della strada – che è lui, siamo noi, ma perlopiù sono gli altri. Terrorizzata dalla solitudine, dalla paura dell’abbandono e dalle responsabilità, Lindemann canta di un’umanità depressa, bestializzata e schiava dei propri più bassi istinti. Non lo fa ergendosi a giudice, poiché al nero della toga preferisce quello della maschera da boia. Non emette sentenze, ma è esecutore di una verità – la propria – che ferisce e uccide, e solo talvolta libera. Nel mezzo qualche amara risata, molte lacrime di sofferenza e brevi attimi di commozione – ma solo quando la parte più irosa e contundente della sua vena poetica ha bisogno di riposarsi.

Ciò accade quando il Lindemann poeta-misericordioso prevarica il Lindemann poeta-berserker, ricordandosi di essere stato anche lui un figlio deluso, un amante dal cuore spezzato, un uomo ferito. Tuttavia, dato che anche qui viene operata una sopraffazione, non c’è mai veramente una riconciliazione, un momento alto, qualcosa di quella ricerca dell’etereo che anima la poesia contemporanea e l’appiattisce entro la medesima scala di grigi. Per questo motivo, probabilmente, la poesia di Lindemann non solletica l’interesse degli editori nostrani, che sanno bene quanto i gusti del pubblico riflettano il conservatorismo che da sempre caratterizza la forma mentis italiana. Abituati al divino della Commedia dantesca e, in un certo senso, alla seriosità d’intenti e ai toni che caratterizzano la scena attuale, l’interpretazione che Lindemann dà della poesia attraverso i suoi versi è più che stridente. Somiglia, anzi, a un dito medio rivolto ai gusti borghesi del pubblico, alla poesia intesa come placebo contro l’oscurità. Tale oscurità Lindemann preferisce abbracciarla, denudarla, farci sesso. È lui il primo a peccare – stehle und luge (trad. io rubo e mento) –, ad aizzare la folla, ad abbandonare l’amata all’altare. Perché lui per primo è stato derubato, ingannato, abbandonato. Nella poesia Vatertag (trad. Festa del Papà), Lindemann affronta il dolore della mancanza del padre Werner, anche lui poeta, e il difficile rapporto che avevano.

 

 

Vatertag

 

Tag für Tag und Stund um Stunde

Fließt dein Blut durch meine Venen

in Minuten und Sekunden

verdünnt mit Angst und kalten Tränen

Du treibst in deiner Einsamkeit

Allein auf hoher See

Und rufst mir Worte in den Wind

Die ich nicht versteh

 

Wo bist du

 

Hab deine Augen im Gesicht

ich kenne dich

kenn dich nicht

trag dein Blut mit mir umher

Ich kenne dich

kenn dich nicht mehr

Du treibst in deiner Einsamkeit

Allein auf tiefer See

nachts im Traum stehst du vor mir

du tust mir nicht mehr weh

 

Wo bist du

 

 

Festa del Papà

 

Giorno dopo giorno e ora dopo ora

il tuo sangue scorre nelle mie vene

nei minuti e nei secondi

diluito con la paura e fredde lacrime

galleggi nella tua solitudine

da solo, in alto mare

e nel vento mi dici parole

che io non capisco

 

Dove sei

 

Ho i tuoi occhi con i quali vedere

ti conosco

non ti conosco

trasporto il tuo sangue qua e là

ti conosco

non ti conosco più

te la cavi nella tua solitudine

in pace, in alto mare

e di notte in sogno mi sei dinnanzi

il male che hai fatto recede

 

Dove sei

 

 

È uno dei pochi testi dove il Lindemann provocatore cede il posto al suo lato più personale e fragile, rivelando la ferita da cui nasce la propria vocazione artistica, ora declinata musicalmente, ora letterariamente. Ma è solo un momento. Le poesie successive sono atte a cicatrizzare e zippare i vuoti d’anima che la sofferenza rivelata ha messo in mostra. Lindemann si dà in pasto al pubblico, ma ne è anche cannibale. Sfida il pudore e la moralità dei lettori, osando e spingendo le immagini poetiche al limite del buon gusto. Come in Fleisch (trad. Carne), dove con la consueta e puerile spietatezza opera un ribaltamento della figura della Musa.

 

Fleisch

 

Ich fand Fleisch im Garten

War doch nur ein Stein

Konnte man nicht essen

Warf Scheibe damit ein

 

Ich fand Fleisch im Hof

Das walzte sich im Dreck

Wollte darauf schlagen

Lief schnell weg

 

Ich fand Fleisch am Bett

Das hatte ein Gesicht

Ich dacht es wäre Liebe

War es aber nicht

 

 

Carne

 

Ho trovato della carne in giardino

Mutata al punto da essere pietra

Roba che nessuno potrebbe mangiare

Ma buona da gettare fuori dalla finestra

 

Ho trovato della carne nel campo

Era avvolta nella sporcizia

Volevo colpirla forte

È corsa via come un diavolo

 

Ho trovato della carne a letto

Aveva una faccia

Sebbene dovesse essere amata

Non valeva un sonetto

 

Lindemann è brutalmente onesto: non teme mai di rivelare i propri più bassi istinti. Li vive appieno attraverso la parola poetica, siano essi moti di violenza o atti di oscenità. Più che per scandalizzare, si presta a ciò per illustrarci verità scomode, per invitare il lettore a guardarsi dentro. Nudo a nudo con queste poesie, il lettore si ritrova a indossare la pelle del poeta. La fisicità e la carnalità degli elementi retorici sui quali egli pone l’accento è volta a sottolineare la vitalità della poesia, ma anche – di conseguenza – la sua organica finitezza. I testi, così come i corpi, sono destinati a decadere, a marcire, a divenire avanzi e resti. Qualcosa da guardare, divorare, fottere. Lindemann sembra dirci che non c’è bassezza nell’oscurità, ma solo perché non si è grado di vedersi quando vi si è immersi. E non vedersi è l’unico modo per non rimanere disgustati dalle proprie bassezze. La poesia invece – la sua poesia – porta luce sull’oscurità che abitiamo ed è parte di noi, e rivela il nostro disgusto. Leggere Lindemann e sentirsi disgustati significa provare repulsione per i nostri difetti primordiali. Ma questo è solo un passo verso la consapevolezza e la comprensione di sé stessi, verso una risposta che alla fine non soddisferà mai del tutto la domanda eterna, che verte sull’identità dell’uomo, sul suo essere un insieme fatto di carne e spirito, luce e buio, redenzione e dannazione – in perenne contrasto, in eterno oscillamento –, e cioè: chi siamo davvero?

 

Lindemann dà una sua risposta e lo fa prendendosi gioco della sacralità di elementi e valori all’apparenza immutabili, quali l’amore, la famiglia, le feste comandate, e persino degli astri celesti. Ogni cosa può essere afferrata, sbattuta a terra, denaturata fino al midollo per far fronte alle proprie cattive abitudini. Ma è in tale decostruzione che la poesia aderisce liquidamente alla funzione che le è più naturale, ossia cristallizzare l’oggetto poetico di turno entro una visione insolita, nuova, non necessariamente più edificante o pulita. Sebbene per il frontman dei Rammstein la poesia sia sempre sembrata più un mezzo che un fine, tale approccio non dovrebbe distrarre l’attenzione del lettore dalla caratura dei risultati ottenuti. Perché quella di Lindemann è una poesia del vero. E il vero, la verità – come si suol dire –, è solita far male. Anche e soprattutto quando posta come satira, caricatura, esagerazione.

 

Lo humour nero usato dal poeta, però, non è solo dispositivo dissacrante, ma si pone come filtro della sua vulnerabilità. La struttura semplice dei testi è tesa a enfatizzare l’affilatezza delle parole. Il tono è sempre diretto, disperato e malevolo come gli affondi di un predatore ferito. L’erotismo diviene necessità, bisogno estremo di collocarsi al di fuori della propria solitudine. Non c’è sanità o riposo negli slanci di ricerca del puro, di quell’innocenza che non ci è mai appartenuta. Niente è sacro, tutto vacilla di fronte al desiderio. E ciò che può essere salvezza diviene presto condanna, se lasciato al soldo dell’entropia, dei vizi, delle paure che attraverso quest’ultimi il poeta non vuole dominare, ma sondare fino all’essenza. Niente sembra potersi elevare. I versi, come una mannaia, macellano e trinciano la sospensione dalla realtà che tradizionalmente un testo poetico riserva a chi ne fruisce. Qui la cruda realtà, seppur portata agli eccessi, investe come un’onda di liquame la sensibilità del lettore, conducendolo negli affanni esistenziali che il poeta ha esorcizzato per mezzo delle proprie liriche. Senza lasciare spazio al silenzio delle notti del titolo, ma riempiendo quest’ultime di angoscia e disperazione. Per continuare a sentirsi vivi.

 

 

Le poesie riportate sono tratte da “In Stillen Nächten” di Till Lindemann (Kiepenheuer & Witsch, 2013)

 

Traduzione di Andrea Sponticcia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!