Qualcosa di vivo, recensione di Infinite Jest di David Foster Wallace

Quando se ne parla, ormai, non vi è mai molto da aggiungere sul romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace (Little, Brown and Company, 1996). Salutata fin dalla prima edizione come un capolavoro, quest’opera ha innalzato il suo autore allo status di genio, anche se il Genius Grant conferitogli dalla Fondazione MacArthur nel 1997 fu più un fardello che un onore, per Wallace.

Il rischio, quando si parla di Infinite Jest, è di non trovare mai il giusto equilibrio, poiché trattasi di un romanzo che per mole, temi e impatto culturale è intrinsecamente votato allo squilibrio, sia nella sua struttura apparentemente priva di armoniosità, sia per le reazioni che ha generato tra i lettori.

Troppo lungo, troppo dispersivo, ma anche – per chi lo ha amato – troppo breve, troppo poco dispersivo. E le questioni di trama irrisolte? E il finale? Sono croce e delizia dei lettori, specie di quelli che oscillano tra l’entusiasmo e il disprezzo per quello che era stato definito, a suo tempo, il nuovo grande romanzo americano («L’ennesimo», aggiungerebbero i più cinici).

L’americanità di Infinite Jest, però, non risiede solamente nelle intenzioni del suo autore di raccontare un paese attraverso l’esasperazione delle sue caratteristiche, o nel modo in cui Infinite Jest è stato, non a torto, venduto, pompato e lodato. Il personaggio cucito addosso a Wallace ha di certo alimentato il particolare culto che ruota attorno al romanzo, ma sarebbe superficiale appiattire le qualità del libro sul fumo generato dal circo mediatico natogli attorno.

Cos’è che colpisce, di Infinite Jest?

Oltre alla mole e al Wallace personaggio – «Non ti spacchi la schiena su un libro di mille pagine, se pensi che l’autore sia un tipo normale. Lo fai perché pensi che sia geniale, perché vuoi che sia geniale» fanno dire al David Lipsky interpretato da Jesse Eisenberg, nel film “The end of the tour” (2015) –, direi la capacità del suo autore di catapultare chi legge su una retta della quale la storia contenuta nel libro è soltanto un segmento, tanto sono consistenti la complessità e la vastità del mondo narrato. La storia, nella totalità dei suoi elementi, restituisce pienamente la sensazione di trovarsi di fronte a un romanzo che, in mancanza di espressioni più originali, definirei “qualcosa di vivo”.

Tale espressione è teoricamente attribuibile a ogni romanzo ben scritto, ma in questo caso risulta più puntuale in virtù dell’abilità narrativa di Wallace, capace di satirizzare e commuovere senza mai farsi cogliere in flagrante, ossia senza mai dare l’impressione che certe parti del libro – pur se partorite come tali, in fase di stesura – siano un esercizio di stile o che l’universo narrativo da lui creato abbia nel proprio caos la funzionalità di nascondere le sue pistole di Cechov.

Alla longevità del romanzo ha concorso, pur attraverso il filtro delle impalcature letterarie, l’elemento autobiografico.

Wallace, di sapienziale mestiere, ha adempiuto alla regola numero uno degli scrittori, quello “Scrivi di ciò che conosci” che nel suo caso concerneva luoghi quali la dipendenza, la depressione, il lato oscuro del sogno americano e, da qui, l’inadeguatezza del singolo al cospetto di una società al contempo crudele e auto-indulgente, ma ugualmente inadeguata agli standard professati dalle istituzioni e dai suoi rappresentanti. Il tutto, come detto, veicolato da una pluralità di punti di vista narrativi (compreso un rischioso ma per nulla gratuito salto dalla terza alla prima persona, in alcuni passi) e da uno sforzo immaginifico che, attraverso sacche di testo imbevute di realismo isterico, produce e descrive, a mo’ di cornice degli eventi, una società distopica che anno dopo anno è sempre più simile e vicina alla nostra.

L’americanità sopramenzionata è un’estensione ipertrofica dell’occidentalismo europeo e, di conseguenza, della cultura di cui Wallace racconta e prende in giro gli eccessi edonistici ed egotistici attraverso una narrazione che è sì macchina da presa, ma con una sua anima – si pensi, appunto, al personaggio del fantasma di James O. Incandenza, che nella storia è un cineasta e nell’economia del libro è la voce narrante più preziosa –parallela a quell’intrattenimento fallito (il titolo originariamente scelto da Wallace per il romanzo) che, dato il simbolismo in esso racchiuso, non è soltanto un ingegnoso McGuffin, ma assurge – come l’intero libro – a metafora dei pericoli legati al perfezionismo, sia che lo si raggiunga (l’Intrattenimento è così ben riuscito da fare il giro e portare alla morte coloro che ne fruiscono), sia che si fallisca nel tentativo di raggiungerlo (la trama con protagonista Hal Incandenza, per esempio, che vedrà il personaggio subire un’inversione di segno e trovare, in un’apparente involuzione, un altrettanto presunta salvezza). Da qui l’universalità di un’opera che, per mettere in guardia dal lupo, si rivela a sua volta lupo. Qualcosa di vivo, appunto.

Ma qual è la storia che Infinite Jest racconta?

La trama, come detto, si articola attraverso molteplici punti di vista e vicende succursali a quella principale, che vede come protagonisti la promessa del tennis Hal Incandenza, terzogenito di una ricca ma infelice famiglia di Boston, e Don Gately, ex tossico alle prese con il percorso dei dodici passi previsto dall’Alcolisti Anonimi. Movendosi entro binari apparentemente paralleli, il destino dei due finirà per incrociarsi in modo inatteso sia sul piano diegetico, sia su quello fruitivo. Ciò perché, come risulterà chiaro soltanto alla fine del libro, Wallace pone il focus sul cerchio che delimita gli eventi della narrazione, anziché sulla risoluzione in medias res di quest’ultimi. In altre parole, sta al lettore unire i mille pezzi del mosaico per ricostruire gli snodi narrativi e capire che cosa è successo tra la prima e l’ultima scena del romanzo. Usando un eufemismo, Wallace si limita ad apparecchiare la tavola, invece di mostrarci la cena. E si diverte a torturare il lettore inserendo un apparato di note in appendice che sulle prime sembra accessorio, ma poi si rivela strumento essenziale per collegare i punti.

Inoltre, nel mondo dell’opera, gli accadimenti si dipanano lungo una linea temporale ambigua e resa ancora più alienante dalla nomenclatura dei periodi narrati, poiché gli anni solari non vengono più classificati con un numero, ma con il nome dell’annuale prodotto sponsor. Alle vicende degli studenti dell’Enfield Academy, la scuola privata dove Hal studia e gioca, si alternano quelle dei frequentatori di una casa di riabilitazione dove Gately lavora come inserviente. In background, una società assuefatta all’intrattenimento in ogni sua forma, e in particolar modo a quello generato dalle cosiddette cartucce – metafora ante litteram delle piattaforme streaming –, è minacciata dalla comparsa fuori mercato di una cartuccia potenzialmente devastante, che costringe chi la guarda a guardarla all’infinito, fino ad arrivare a morire d’inedia. Nelle mani sbagliate, tale tecnologia potrebbe rivelarsi un’arma più devastante della bomba atomica. Da qui la corsa di un governo corrotto e incompetente e di un bizzarro gruppo terroristico per accaparrarsela. Anche Hal, che sospetta che l’inventore della cartuccia sia proprio il defunto padre, si adopera per recuperarla, ma scoprirà presto di essere impotente di fronte agli eventi, schiacciato come si ritrova in una morsa fatta di traumi infantili riemergenti, angoscia esistenziale per una futura vita da atleta che non desidera, e una segreta dipendenza dall’erba.

Quest’ultimo tema, unito a quello della lotta per la sobrietà, è ciò che lega i campioni della fauna wallaciana, colonna portante del libro. Che si tratti di alcol, droga, sesso o intrattenimento, l’essere umano moderno non riesce a sopravvivere nella società malata senza ammalarsi a sua volta, cercando e trovando nell’alienazione prodotta dall’uso di una sostanza un paradiso artificiale che finirà con il rivelarsi inferno. E se la dipendenza è il corpo del mostro, la malattia mentale ne è l’anima. Depressione, ansia, anedonia e disturbi ossessivi compulsivi sono tutte forme presenti all’interno del romanzo. Corde che legano vite di successo (o destinate al successo) spezzate, e che generano risposte drammatiche, magnifiche e spaventose.

E drammatica, magnifica e spaventosa può essere l’esperienza di leggere Infinite Jest oggi, a quasi vent’anni dalla sua pubblicazione. Non solo per l’impegno che richiede, vista la complessità della narrazione, le dimensioni del libro e le note in appendice, ma pure per l’inquietante verosimiglianza con un presente, il nostro, profetizzato e messo a nudo.

C’è solitudine, nelle sue pagine, ma leggere questo libro potrà ricongiungervi con la parte rotta di voi stessi. Sempre che accettiate di entrarvi dentro, lasciandovi trasportare dal flusso caotico delle parole e dalle decine di personaggi senza stare troppo a chiedervi quale sia la direzione. Una volta perduti vi sarà chiaro. E non ci sarà ritorno.

 

 

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