SIMIMESIS
è una raccolta di poesie che racconta dieci anni di terremoto. A dieci anni dal terremoto del 2009 Valter Marcone ha raccontato in versi, nel volume SIMIMESIS edito dalla Daimon Edizioni di L’Aquila con la prefazione della dott.ssa Maria Rita Ferri (psicoterapeuta psicoanalitico), una storia d’amore per una città.
Ora c’è il peso della terra
E tornare ancora lassù
dopo il terremoto
tra i giorni dissipati , teneri
e pieni d’ombra tra il rosa
delle albe e quell’acceso
giallo dei tramonti
è tornare come in un altro tempo .
Tornare lassù, come a chiedere
arancio di tramonti di sole,
e rosa delle albe ma anche perdono
per non essere più capaci
di vedere l’immagine dei baci,
il suono dei canti,
il rumore dei sogni.
Varcare poi appena appena
la porta delle chiese
che non hanno più soglia
per pronunciare una preghiera
come quelle delle devozioni della sera
quando scacci dal sonno
case grigie e volti di uomini
perduti in un terremoto ,
voci e parole, insonnia, in somma il tempo
d’una giornata ormai passata.
Tornare lassù come un mesto
pellegrinaggio attuale senza vita
che la vita di qui è passata
ed è oggi scomparsa.
In questa vecchia casa
non ci sono più vecchi
che cuciono il tempo
con i ricordi
e non ci sono bambini
che guardano dalle finestre le rondini
e aspettano ricordi .
Ora c’è il peso della terra
che si è mossa,
della polvere, del cuore
che ha perso ogni carità
e non sa più dire nulla;
lassù , lassù sono tornato
e ho trovato le immagini
addormentate dell’amore
l’amore di chi
di qui passò e poi scomparve .
La poesia di Valter Marcone dà voce a qualcosa di intimamente lacerato, come se l’Io avesse sue parti di tessuto sottile che l’incuria della terra e del tempo abbia ferito. Egli riannoda sottili fili di luna improvvisamente interrotti da un incontro di pietra. Questo il suo scopo nei versi. E se è muto ogni muro, la sua poesia è incontro tra pietra e luna.
E la sua è poetica del passaggio, poetica della parete di seta che non si poggia, seguendo un respiro accennato. La sua poesia è nel riunire delicatamente i lembi di una storia infranta. Fermo sul luogo della perdita dove la memoria fa forza al reale, la sua poesia ha i colori di ciò che è vero e impedisce che il vuoto divori il reale.
Nei suoi versi la memoria, infatti, è sempre memoria di sostanza, di ciò che non muore. Il ricordo può forse sfumarsi e crudelmente svanire, ma la memoria ha cuore e quindi può forse attendere, sostando nella perdita, che torni il fuoco della Fenice e ci restituisca dall’ombra la vita.
La sensibilità del poeta nasce, fra l’altro, forse dall’esperienza di aver presto conosciuto la caducità della vita (che ne fa anche la sua forza). Egli certo conosce la perdita e l’amore silenzioso, ma non si abbandona mai al sogno perché la realtà dei muri interrotti delinea confini alla sua rêverie, che si estende invece nei campi, nel grano, dove trova dimora per avvolgere i suoi sogni correnti.
Scrivendo d’amore per i suoi luoghi, egli vive in un ineffabile passaggio tra passato e sogno, nel mondo transizionale dove solo è possibile creare senza i limiti di un matematico esistere. La sua poesia è lettura di senso delle ombre e luci sui muri del paesaggio, che nel suo sentire ha il nome amico della terra.
Nel suo scenario ogni oggetto è solitudine, il resto antico di un dialogo con la luna. E solo Marcone sa dare ad essi il sapore dei tagli di Lucio Fontana nelle “Attese”. Gli oggetti sono corrosi non dal tempo, ma dalla terra che infranse il legame con i sogni, oggetti testimoni antichi che attendono che la luna li ricomponga.
Il suo essere resto, ne fa l’immagine dello slegamento, ma anche raffigurazione di qualcosa di universale, ha il sapore delle bottiglie di Giorgio Morandi, dove però è il tempo e non la terra ad aver cancellato l’umano discorso.
La piccola poltrona, presente sulla copertina, come le immagini delle bottiglie di G. Morandi, assurge a livello di icona che trattiene il tempo. A mio avviso, raggiunge, in quanto ultima, la sua capacità raffigurativa di attesa, raccontando una aristocrazia della sosta e rimanendo, come noi, da quella notte, in attesa che “…un simbolo giunga a trovarci…”.
In Valter Marcone è presente, a volte, il sorriso amaro di chi non cerca consolazione e non ne trova se non nelle pause dove dimora il dolore. Egli trova il coraggio di negarsi ogni illusione, nello scendere nel pianto muto di una città dove la siepe Leopardiana non si legò più al cielo. Una città che rinunciò, d’emblée, alla sua espansione, concentrandosi in un attimo di muro.
Una città cui il sisma ha sottratto il garbo, allontanandola da mani amiche che possano spolverarla amandola.
Sono le “case immobili” di Francoise Minkowska.
Valter Marcone è, dunque, il sognatore di aperture e del ricongiungimento. Egli, pertanto, ci mostra una città senza luna, senza promesse di paesaggio, avvolta in una solitaria neige vide, dove il legame è del tutto intimo.
Il poeta coglie ardentemente questo perdersi di senso nel paesaggio di una città che diviene popolata non più di oggetti ma di cose, quando l’oggetto perde il suo simbolo, la sua intenzione di essere-con, è un oggetto morto. La voce del poeta è di chi non teme il dolore e cerca il vero, perché sa che da lì, e solo da lì, può tornare “l’antica madre che raccoglieva le nostre rappresentazioni disperse” (M. R. Ferri, “Pensare il sisma”).
Attraversa la lunga notte di anni che, come un manto, ci avvolge ancora, e che da allora mantiene intatta la sospensione in attesa di un ritrovamento d’alba. Riconosce il volto della città come il volto della madre amato e perduto. Egli fa dell’arte del ridurre il suo canto: poesia dell’omissione di ciò che può oscurare l’essenza.
Il suo è il racconto dello slegamento oggettuale dall’intero, in un paesaggio infranto, che interrompe l’essere.
Egli ci restituisce ciò da cui nacque lo stupore notturno che non ha simboli, né trova rappresentabilità, ci restituisce il freddo di una caducità divenuta realtà d’emblée, oggetti divenuti cosa, senza legame tra loro, più. Usci senza vita e silenzio come cenno di fine.
Poesia dell’irraccontabile, ne rende incandescente la verità ultima: abbandono delle cose, circolarità della perdita, i padri estinti.
Il topos che ha perduto la memoria è paesaggio d’ombra in cui, perduta la ricerca, rimane l’attesa. Graffiante la voce del poeta, segue i muri e le pietre di ogni casa, segna il suo essere per sempre lì. Passi immobili e mai fermi seguono l’immobilità di un tempo-spazio e icona solo nei muri di A. Tàpies. Ogni verso, infatti, è incisione su un muro per testimoniare, per far vivere ancora ciò che svanisce tra le dita. Come A. Tàpies, anche Valter Marcone ha come valore profondo la coscienza d’essere, di cui il verso come il graffio, il segno, sono rappresentazione.
Questo culto dell’esser-ci è atto d’amore del poeta e del pittore, culto dell’orma lasciata dall’essere, ritrovata e liberata dalle mille forme del non-essere.
La poesia di Valter Marcone è metafisica della perdita.
Cancella d’emblée ogni consolazione, rigetta il mondo dei sogni: la sua attesa è pura attesa e in quanto tale concentra il suo esser-ci. Ha la dignità di chi vive anche nel tramonto delle cose. I suoi versi sono orme di un mondo interrotto, ne conservano la fragranza, sono testimoni di un sentimento d’identità e di legame.
Come per A. Tàpies, anche in Marcone ogni segno è memoria, custode di un passaggio d’essere, ne conserva il respiro e lo pone in una trascendenza in cui non può morire. I versi di Valter Marcone, infatti, graffiano i luoghi della mente, inscrivono in essi il nome amato. Egli descrive come la città divenne un luogo senza topos e la mente perdette il suo scrigno.
Questo suo libro ha il sapore di un grande muro di A. Tàpies dove il gesto, o il verso, è già segno di un per sempre, o di un ricordo solitario. I segni di A. Tàpies sono urla mute e orme di passi non conosciuti dell’essere, egli, come artista informale, elimina tutto ciò che eccede per far emergere il vero. E così Valter Marcone.
Se in A. Tàpies il muro è la mente che non dimentica, nel poeta il libro è il ricordo di chi ama ed estende l’attesa, mettendo insieme oggetti silenziosi e caduti, e ne coglie l’incanto ed il tempo nella fragilità che si oppone.
Ma mentre per Bonito Oliva A. Tàpies è “il creador di un lungo sogno”, V. Marcone sceglie il vero al sueño e sosta davanti l’uscio dove il tempo sostò.
Il lungo ricordo del libro ricolloca, slegati dal sisma, oggetti amati un tempo ed oggi ancora, divenuti icona di una vita d’altri tempi.
Mentre l’arte di A. Tàpies è un sogno di senso, in cui graffi, segni, orme e aspetti materici sono legati in tale segno e sottratti al loro lento svanire, i versi di V. Marcone sono essi stessi uscio, scalinata, viottolo tra case, piazze di sole, possiamo dire che il suo verso si fonde con la materia, perché in essa è l’anima e il senso, sia pure nella sua forma ora scissa; egli non è mai altrove.
Egli vive con la città. È egli stesso la voce della città resa muta dal lungo cedere della terra.
Le sue parole toccano come dita le emozioni incise sulle mura, in ogni pietra che, nel rimanere, non diviene mai rovina. Egli descrive un nuovo paesaggio senza luce ma con il dolore di essere un resto, nello stupore di un ritmo cosmico che cessò.
Una città divenuta periferia, in cui il poeta offre simboli ad uno stato psichico fermo con il tempo.
L’essere fermo è per V. Marcone una scelta di essere-con-l’oggetto amato, di credere in una pausa in cui soggetto ed oggetto si congiungano dolorosamente in una nuova certezza dell’essere.
Unire il proprio dolore a quello degli usci, di ogni pietra o angolo di muro o piccola piazza, è il poema di Valter Marcone, il suo scritto d’amore.
Nello scegliere con M. Heidegger di esser-ci, scegliere “il vero regno dell’essere”, ovvero l’esistenza autentica, rinunciando a risonanze della forma, è tremare con la terra.
Ed ogni elemento strutturale, nei suoi versi, infatti, è la concettualizzazione di una scelta di silenzio, di porsi in ascolto di una città che non tace un nuovo inizio.
La sua poesia, come la poetica di A. Tàpies, è una ritrarsi dal fenomenologico per immergersi nell’immanenza d’essere. Nei suoi versi, infatti, Valter graffia l’apparire dell’oggetto fino a giungere alla sua realtà noumenica, il vero celato dall’apparire. E’ il nucleo vivo della città cui egli giunge e di cui si prende cura e pone al riparo nei suoi versi.
Allo slegamento del cosmo che il sisma compose, Valter Marcone risponde con un legame tenace al vero, al particolare, alla storia degli spazi e degli sguardi. Il suo aderire, attraverso i suoi versi, al mondo oggettivo, è il proprio modo di avvolgerlo, di ripararlo e di ricostruirlo attraverso un atto d’amore, donando la propria soggettività all’oggetto ferito, accoglierlo e averne cura. Egli attinge al suo sentire come “acqua primigenia” per cancellare gli urti e rivelare la dignità mai perduta del suo oggetto amato: cullare l’inconscio della città in un legame che Valter Marcone non scioglie, mai. Egli cinge, abbraccia con la sua soggettività estesa su ogni pietra, su ogni uscio, la città-oggetto-d’amore.
C’è un per-sempre nelle sue poesie che non è promessa, ma racconto di radici appassionate, è il suo esistere intimamente con lei: la sua- nostra città. Per questo possiamo certo affermare che “Mantieni il bacio” è il giusto titolo della raccolta di versi di Valter Marcone.
Dott.ssa Maria Rita Ferri
Psicoterapeuta Psicoanalitico
Silenzio nella notte
Silenzio nella notte
tra le case le strade le alte mura
e più che l’illusione
di un altro mondo non dà.
Senti nascoste tra le ombre
e dentro l’eco dei silenzi
assommati ai silenzi
quello che fu un mondo
che fa appello al desiderio
di un’altra età di un’altra
storia, d’un altro amore.
Mentre lontano la valle
s’infittisce tra le piante
dalla finestra guardo il buio
e ascolto il silenzio.
Così cerco d’indovinare il resto
della città e non so cavarci
un senso di rimorso
io che non ho voglia di essere consolato
ma non ho neanche voglia
di mentire.
Perché io sono troppo tuo
compagno o mia città
e quindi non posso consolarti o mentirti.
Tu mi offri in cambio
la pace di questa notte
di buio e silenzio
e io non so dire
se è il caso di versare
o reprimere una lacrima .
Quello che è certo
e penso come in un brivido
quello che brucia questo desiderio
è il desiderio senza fine
di risposte, di risposte
ora negate.
Nella contentezza degli scampati
Nella contentezza degli scampati
ognuno di noi sapeva
quello che avrebbe cantato quando ci sarebbe stato solo
il rumore del mare là proprio sull’ultimo orizzonte
ma anche dentro le piazze, le case
le stanze, le strade della città abbattuta.
Avrebbe saputo
che non era più tempo di potare la rosa,
accarezzare il gatto, bere birra ghiacciata l’estate.
Sono ricomparsi poi nel giorno successivo
il tramonto e i suoi colori,
la luna e i suoi vapori
ma ognuno di noi sapeva che avrebbe scoperto al loro posto.
Ma tutto era una contentezza da scampati .