Leggere Daniele Del Giudice e le sue parole decisive
La malattia lo aveva messo a tacere. Ma poi in definitiva la morte ha liberato la forza delle sue parole. Parole decisive.
Parlo di Daniele del Giudice (Roma, 11 luglio 1949 – Venezia, 2 settembre 2021) scomparso qualche giorno fa dopo quindici anni di malattia. Quindici anni durante i quali è stato progressivamente ridotto al silenzio e ha dovuto rinunciare ad una meritata notorietà. Daniele Del Giudice ci lascia con un vuoto profondo perché ci ha aiutato, appunto con le sue parole, a capire il mondo che ci circonda, quello che chiamiamo il nostro mondo e soprattutto ci ha aiutato ad apprezzare e migliorare le relazioni umane. Che sono il fondamento di ogni conoscenza e per questo stanno alla base della vita del mondo, della sua storia, del suo sviluppo e del suo costante cambiamento verso un divenire che senza relazioni umane probabilmente sarebbe tutt’altra cosa.
Anche se non molto conosciuto, proprio ora che ci troviamo di fronte alla sua eredità culturale occorre coltivare la sua memoria e la memoria delle cose che ha detto e scritto.
Quasi come una legge di contrappasso perché Daniele Del Giudice, da quindici anni ha sofferto di demenza precoce, proprio per la perdita di quella memoria che oggi noi invochiamo per tenerla nel giusto conto. Per tenere la sua opera, anzi riscoprire la sua opera, nel novero di quegli scritti che segnano il tempo, un tempo in particolare, ma che poi vanno oltre perché capaci di travalicare i giorni e gli anni in una proiezione che va continuamente illuminata, messa sotto i riflettori per scoprirne anche i contorni e le sfumature.
Coltivare la memoria
È quello che in definitiva ha fatto la casa editrice Einaudi che in questi anni ha continuato a “coltivare la sua memoria” anche se sembra strano parlare di coltivare la memoria di un autore ancora in vita, riproponendo le sue opere principali , gli scritti, le riedizioni .
Un impegno di salvaguardia, conservazione e valorizzazione di fronte al “silenzio”, quello della sua mente smarrita, che stava corrodendo tutte le sue parole, quelle che aveva usato fino ad allora. Sterilizzando quella prolificità che gli aveva permesso di creare tutte quelle parole che ora suonavano vuote. A lui, per effetto della sua malattia ma non per i lettori. Una beffa tremenda. Per uno scrittore che aveva attraversato il mondo del linguaggio, delle parole, dei lessici e che a loro aveva affidato la preminenza contro quella delle immagini che dovunque cominciavano a dilagare e tuttora sproporzionatamente dilagano. Che hanno creato una civiltà, quella delle immagini, come qualcuno la chiama ma che allo stesso tempo hanno sommerso appunto la parola. Ma è un discorso lungo e forse vale la pena di riprenderlo in altra sede.
Daniele Del Giudice aveva affidato alla parola l’esplorazione dell’invisibile che fonda la realtà. Un mondo reale che attraverso la parola, il lessico, le nomenclature ritrovava il senso e il valore dell’essere.
Lo stadio di Wimbledon
La ricerca delle parole giuste, la scrittura precisa e raffinata nel restituire la complessità con leggerezza gli avevano permesso di guardare al mondo in modo originale con un riverbero sul mondo della letteratura per il quale aveva creato nuovi territori narrativi fin dal suo straordinario esordio con Lo stadio di Wimbledon nel 1983 che aveva conquistato Italo Calvino, suo scopritore e autore della quarta di copertina della prima edizione enaudiana.
Daniele Del Giudice insieme ad Andrea De Carlo, scoperti entrambi da Italo Calvino e pubblicati dalla Einaudi, dove Calvino svolgeva la sua attività di consulente, può essere ritenuti forse un erede del geniale autore di Palomar.
Del Giudice e De Carlo forse impersonano la continuazione della ricerca che Calvino aveva iniziato interrotta purtroppo dalla sua morte. Va ricordato infatti che la voce narrativa di Calvino è rimasta ferma al signor Palomar (1983), l’ultimo progetto narrativo che porta a termine, nato sulle pagine del Corriere della Sera nel 1975. Fra i libri pensati e non realizzati che la morte improvvisa ha lasciato allo stato di progetto, c’è il volume Passaggi obbligati, con il quale Calvino intendeva riunire quanto aveva scritto, e si proponeva di scrivere, di autobiografico.
Ma è il lavoro editoriale dello scrittore Calvino che ci aiuta a ricercare i elementi della sua poetica, e a far luce sulle sue idee critiche e teoriche. In questo senso, l’inizio degli anni Ottanta è particolarmente significativo, e vede l’affacciarsi, sulla scena editoriale e letteraria, di due giovani autori, Andrea De Carlo, classe 1952, e Daniele Del Giudice, classe 1949, i cui esordi narrativi sono patrocinati da Calvino stesso.
È un periodo quello degli anni Ottanta in cui la Einaudi adegua la sua strategia editoriale rilanciando alcuni autori, tra cui per esempio Tondelli e apre a nuovi autori. Tra questi appunto De Carlo e Del Giudice.
I giovani scrittori Einaudi
Scrive Sabina Ciminari in “Gli “eredi” di Calvino negli anni ottanta: Andrea De Carlo e Daniele Del Giudice” su https://doi.org/10.4000/cei.463 :” Nello specifico, è in questo contesto che l’Einaudi intraprende una strategia concertata di lancio di giovani scrittori, che godono dell’appoggio di un patrocinatore – modalità di promozione, questa, che altre case editrici si affretteranno a prendere ad esempio – come Calvino: personaggio non solo autorevole, all’epoca, ma consacrato dal successo di Se una notte d’inverno un viaggiatore, e quindi ormai collocabile oltre il ristretto circolo degli addetti al lavoro, nonché da sempre impegnato a seguire con attenzione le sperimentazioni dei giovani e gli sviluppi della narrativa contemporanea. «Nuovi Coralli» accolgono prima il più giovane Andrea De Carlo con Treno di panna, nel 1981. Due anni dopo esce Lo stadio di Wimbledon di Del Giudice. Entrambi recano la presentazione di Italo Calvino.
Andrea De Carlo
“La giovinezza è tante cose, anche una particolare acutezza dello sguardo che afferra e registra un enorme numero di particolari e sfumature; un’insaziabilità degli occhi che bevono lo spettacolo del mondo multicolore ingigantito come attraverso la lente d’un teleobbiettivo e lo depositano in fotogrammi miniaturizzati nella memoria. È questa la giovinezza che Andrea De Carlo racconta: la storia d’un ragazzo italiano piombato a Los Angeles non sa neanche lui perché e che cerca d’arrangiarsi con mestieri occasionali, è seguita attraverso tutto quello che capita nel raggio dei suoi occhi attenti e imperturbabili […] Calvino, in questa ormai famosa quarta di copertina che accompagna la prima edizione del romanzo, dimostra di seguire con attenzione un personaggio che, proprio come il suo Palomar, sembra dominato dall’acutezza dello sguardo: «occhi attenti e imperturbabili», e al contempo insaziabili, sono definiti quelli del protagonista. Un modo di guardare che è segnato dalla «giovinezza»: un termine editorialmente accattivante, certo, ma che qui significa anche altro, in quanto determina la qualità di un modo di raccontare che è anche un modo di stare al mondo. Calvino parla di giovane narrativa, e si serve della categoria per promuovere un romanzo, ma lo fa seguendo una sua particolare idea di letteratura. Prosegue, infatti: Oggi ci imbattiamo spesso in una scrittura giovanile in cui domina lo sfogo degli stati d’animo, il rimescolamento interiore, il dramma esistenziale: nati da un’esigenza di sincerità assoluta questi testi di solito non ci dànno che un repertorio di clichés e di espressioni generiche: schermi verbali che nascondono più di quanto non esprimono. Andrea De Carlo è tutto il contrario: proiettato come è sul «fuori» non è escluso che egli riesca a farci intravedere qualcosa del «dentro». […] Non a caso Andrea De Carlo, prima di affrontare il romanzo, ha cercato di esprimersi con la fotografia; scrivendo sembra voler sostituire la penna all’obbiettivo fotografico […].” ( 1 )
Del Giudice e l’influenza dell’incontro con Calvino
Del Giudice ha scritto tanto. Ha scritto guardando alla realtà e ha raccontato la realtà. Ha cominciato la sua carriera come giornalista di Paese Sera e ha poi lavorato ad opere più complesse e complete fino a che la malattia glielo ha consentito, lasciando però anche una miriade di scritti diversi con particolare attenzione per esempio alla scienza proprio in virtù di quel suo incontro iniziale con Calvino.
A questo proposito scrive nell’articolo che abbiamo citato Sabina Ciminari: “È il caso dell’attenzione per la scienza, ad esempio, così scarsa nella storia letteraria italiana del Novecento, ma di cui Calvino è stato un magistrale interprete, e che Del Giudice ha tenuto presente nelle pagine di Atlante occidentale. E, ancora più evidente, il discorso sui Cinque sensi: la progettata raccolta di Calvino attraversa tutta la narrativa di Del Giudice, dalle pagine di Nel museo di Reims, racconto lungo del 1988 che ha al centro il tema della vista; alle pagine di Mania – tutte giocate su un «troppo sentire» di foscoliana memoria (e infatti le parole di Foscolo sono collocate in epigrafe del testo) –, volume del 1997 che si apre su un racconto dal titolo L’orecchio assoluto. Una raccolta di manie, di fissazioni e di follie, che sembrano rispondere all’ossessività che Calvino aveva individuato come una delle caratteristiche dell’agire moderno. Interrogato sulla «direzione più promettente verso cui si muove il romanzo degli anni Ottanta»”
Il volo e la leggerezza
Tanto che: “Le sei proposte calviniane per il nuovo millennio lasciano, infine, qualcosa di più che un segno, nell’elaborazione dell’immaginario letterario di scrittori come Del Giudice. La visibilità, centro e fulcro del suo racconto e del suo modo di narrare, ma anche la leggerezza, che sembra tematizzata nella passione per gli aerei che Del Giudice, da esperienza di vita, fa passare alla sua scrittura: si veda in particolare la dichiarazione d’amore per il volo che è al centro di Staccando l’ombra da terra, ed è anticipata dalla passione che accomuna Brahe e Epstein, i due protagonisti delle pagine di Atlante occidentale. Nel complesso, siamo davanti a un Del Giudice che cambia sempre, eppure in ogni romanzo e racconto si può capire che è lui. Potremmo quindi attribuirgli le parole con cui Calvino sembra definirsi quando, nelle pagine di Se una notte d’inverno un viaggiatore, parla dell’ineffabile figura dello scrittore: «Ti prepari a riconoscere l’inconfondibile accento dell’autore» – ammicca verso il personaggio del lettore l’io narrante dell’incipit del romanzo – «No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui»”.
Daniele Del Giudice, i premi
Opere che gli hanno valso numerosi riconoscimenti, fra i quali il Premio Viareggio Opera Prima nel 1983,[9] il Premio letterario Giovanni Comisso nel 1985,[10] il Premio Bergamo nel 1986,[11] il Premio Bagutta nel 1995 e, per due volte, nel 1994 e 1997, è stato selezionato per il Premio Campiello.[12] Nel 2002, riceve il Premio Feltrinelli dall’Accademia Nazionale dei Lincei per l’opera narrativa.[13] I suoi lavori sono stati pubblicati in varie lingue. All’uscita di Orizzonte mobile (Premio letterario dell’Unione europea nel 2009[14]), è stato indicato come vincitore del premio Strega, notizia che l’autore ha smentito, affermando di non voler partecipare alla corsa per quel premio. A decorrere dal 6 giugno 2014,
Dice Tiziano Scarpa in un lungo articolo su Domani di sabato 4 settembre 2021 che tra i due motivi che vuole ricordare appunto nell’articolo, perché si continui a leggere Daniele Del Giudice c’è quello che quest’uomo aveva capito che “la forza motrice della nostra epoca si stava spostando dalla politica alla tecnologia, dalle idee agli oggetti “ Un segno fondamentale che è poi quello dell’intera sua opera che permette a Daniele Del Giudice di attraversare le parole per scovarne il sostrato invisibile, quello e solo quello che riesce a definire la realtà. Attraversando le parole in cerca della realtà questo intellettuale schivo, riservato, pieno di attenzioni ad un mondo tecnologico che tentava continuamente di spiegare, ci ha detto che è possibile una immersione in quello che resta della realtà. Perché è possibile ricavare dalle parole che restano (quante ne sprechiamo, ne buttiamo via, ne usiamo male) un’immagine del mondo diversa da quella che mentalmente ci facciamo usando altre categorie di pensiero.
Del Giudice aveva capito che in questo secolo entrante ma soprattutto nel Novecento non c’è stato e non c’è un “meccanismo di superamento” che, spiegato meglio, significa che un’avanguardia non ha sostituito la precedente ma che le si è affiancata e che comunque entrambe continuano a produrre i loro effetti. Hanno convissuto e convivono già dal Novecento fenomeni diversi tra loro per cui le uniche novità in definitiva erano solo quelle tecniche. Quindi dice ancora Tiziano Scarpa in quell’articolo che abbiamo citato: “come intellettuale e come romanziere, aveva concentrato la sua attenzione sulle cose nuove, gli attrezzi inediti, le situazioni emergenti, le svolte tecnologiche del presente e del passato”.
“Il giusto peso”
Un’attenzione, dunque, a questo mondo nuovo con una idea di fondo che le cose avvengono nella più grande distrazione mai nella massima concentrazione. Idea curiosa forse a prima vista ma poi in definitiva vera. Le cose scorrono di per sé e probabilmente poco possiamo farci (anche se impegno, riflessione, determinazione ci aiutano a volte a capire meglio il verso appunto di quel divenire) e quindi è forse giusto riservare un peso “giusto” a quelle cose che scorrono. Il problema è individuare la misura di quel “giusto”, ma questo è tutto un altro discorso che certo approfondisce un’idea di Del Giudice ma richiede uno sforzo intenso e appunto concentrazione almeno dal nostro punto di vista e non di quello di Del Giudice.
Uno spazio, che troncata la riflessione precedente, voglio dedicare qui al terzo motivo, oltre a quelli ricordati da Scarpa per continuare a leggere questo autore. Ovvero la spontaneità dei personaggi che lui mette in scena nelle sue narrazioni. Sono personaggi che non scambiano segreti o confrontano psicologie strane, come spesso avviene in narrazioni di altri autori e sempre più spesso in tempi recenti. Hanno un prego i suoi personaggi: parlano apertamente delle cose che li interessano e propongono quelle cose ai lettori. Perché così facendo mettono quei temi come la fisica subatomica, gli areoplani le conoscenze di come funziona l’orecchio “assoluto”, sotto una lente di ingrandimento, davanti ai riflettori. Direte che forse non sono temi coinvolgenti nella vita quotidiana delle persone ed è per questo che Del Giudice li propone perché il lettore possa farli entrare nella sua vita, perché ci si appassioni. Quei personaggi operano con i lettori una triangolazione attraverso questi argomenti. Non è una confidenza tra il personaggio e il lettore ma è in definitiva uno spazio nella relazione. Dunque, una relazione nuovo che crea spazio tra “io” e “tu” facendolo crescere in modo autonomo, nuovo. Ed è questo, quello dell’attenzione alla relazione, un altro motivo per leggere Daniele Del Giudice.
Ho ricordato l’esordio di Daniele Del Giudice, la sua vicenda umana e alcuni motivi per i quali occorre continuare a leggere le sue opere. Tra le quali appunto Lo stadio di Wimbledon che torna in libreria per le edizioni Einaudi , Atlante Occidentale.
Nel romanzo Lo stadio di Wimbledon, Del Giudice ha raccontato la storia di un incontro impossibile: quello tra un giovane scrittore senza nome e l’intellettuale triestino Bobi Bazlen, morto da anni, una figura evanescente e inafferrabile, decisiva per la società culturale del suo Paese pur senza aver mai scritto una riga. Il protagonista si mette sulle tracce di quest’uomo irraggiungibile e conosce chi una volta l’aveva amato, calpesta i suoi stessi marciapiedi, si fa largo tra le maglie della memoria nella speranza impossibile di trovare risposte al suo enigma: perché non ha lasciato qualcosa di scritto? Ma in fondo, come suggeriva Italo Calvino nella quarta di copertina della prima edizione, chi sia quest’uomo e da cosa fosse mosso non è poi tanto importante. A contare davvero sono le domande e le inquietudini che attraversano il libro, e la dialettica tra letteratura e vita che va in scena appena sotto la superficie delle frasi. È meglio rappresentare la vita delle persone o agire su di essa? Raccontare o esistere? “Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo, quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani” scriveva Del Giudice. “La grande letteratura è così: ci sono certi libri, pochi, che continuano a parlarci a distanza di anni, si sottraggono all’usura del tempo, conservano intatta la loro vitalità e le urgenze del primo minuto. Lo stadio di Wimbledon è uno di questi, e la sua invincibile tensione alla contemporaneità ne ha fatto un piccolo classico, un oggetto che si presta e si regala, su cui vale la pena misurare la forza delle proprie idee con quelle degli altri, discutere, accapigliarsi” spiega la nota editoriale. (2)
Atlante occidentale
Stare dentro la realtà del mondo ed essere realtà è stato dunque il suo “Atlante occidentale “ (1985).
Questa sua opera racconta l’amicizia tra Ira Epstein, un vecchio, famoso, scrittore tedesco, e Pietro Brahe, giovane fisico italiano del Cern; è il dialogo tra scienza e letteratura, numeri e verbi, nato da uno scontro tra i velivoli dei due protagonisti: «l’altro aereo veniva sbieco, così vicino e così basso che immaginò il cupolino tranciato dall’elica».
Al volo (grande passione di Del Giudice) sono dedicati poi gli indimenticabili racconti di Staccando l’ombra da terra (1994), tra Saint-Exupéry e l’aeroporto Nicelli del Lido. In mezzo, Nel museo di Reims (1988) con l’immagine di Barnaba, giovane ex ufficiale della Marina Italiana, che sta diventando cieco e passa il tempo davanti ai dipinti del museo per memorizzarli, finché non arriva Anne. Seguiranno Mania (1997), Orizzonte Mobile (2009), e poi In questa luce (2013).
Sulla nascita di Atlante Occidentale scrive Dario De Marco su Esquire nel 2014 il biologo Edward O. Wilson concludeva il suo libro Il significato dell’esistenza umana con un appello lanciato agli uomini di scienza e a quelli di lettere, per riavvicinare i due mondi: auspicava che uno spirito umanistico e letterario animasse la scienza, soprattutto la divulgazione ma non solo. E d’altra parte invitava gli scrittori, specialmente i romanzieri, a interessarsi delle cose di scienza, a trattare biologia evolutiva e fisica quantistica come realtà nelle quali possono sorgere storie. Esattamente trenta anni prima, nel 1984, Daniele Del Giudice si apprestava a mettere in pratica questo suggerimento.
Il CERN
Dopo aver esordito con Lo stadio di Wimbledon, andava a Ginevra, al CERN, per visitare il più grande laboratorio al mondo di fisica delle particelle. Vi sarebbe rimasto una settimana, prendendo meticolosi appunti di tutti i suoi incontri, e traendo ispirazione per un romanzo misterioso e affascinante, bellissimo: Atlante occidentale. (3)
A inizio 2019 Atlante occidentale è stato riportato in libreria da Einaudi, ma non è una semplice ristampa: è un’operazione dotata di senso profondo, come se ne facevano una volta. C’è innanzitutto la prefazione di Guido Tonelli, lo scienziato che in quello stesso CERN contribuisce a scoprire e a rendere pubblica l’evidenza del bosone di Higgs. C’è, alla fine, il Taccuino di Ginevra, cioè gli appunti integrali che stanno dietro il romanzo; la pubblicazione è stata curata da Enzo Rammairone, che ha scritto un’introduzione a questa appendice, significativamente intitolata 1984 (è l’anno in cui Orwell ambienta la sua distopia, l’anno in cui Carlo Rubbia vince il Nobel per la fisica, e in cui allo stesso CERN Robert Caillau e Tim Berners-Lee iniziano la collaborazione che anni dopo li porterà a inventare il web, l’anno in cui la Apple presenta il primo Mac).
Daniele Del Giudice è la parola
Daniele Del Giudice è la parola dunque. Tanto che il curatore del suo archivio Dario De Marco scrive: Nell’archivio ci sono pagine e pagine di elenchi di parole, molte corredate dal significato etimologico. La ricerca della parola appropriata è alla base della scrittura di Del Giudice, c’è poi l’utilizzo di parole specifiche, settoriali, a volte dei veri e propri elenchi. In molti casi in Atlante occidentale, e anche altrove, in altri suoi libri, come in Staccando l’ombra da terra, i termini scientifici e i termini tecnici non sono spiegati perché il suo intento è inseguire l’effetto prodotto dalle parole sconosciute ai più, come sconosciuti ai più restano alcuni concetti e certe emozioni della fisica o della meccanica. Come se il romanzo fosse una sorta di “manuale” nel quale si possono trovare i nomi della natura, i nomi delle cose, il loro funzionamento.”
Romanzi come manuali e per dirlo con le parole di Atlante occidentale: “Ogni manuale era per me un libro di galateo applicato, un romanzo di formazione. Con ogni cosa nuova imparavo anche una nuova nomenclatura, ed era come un’alfabetizzazione del corpo: i nomi corrispondevano ai gesti, i gesti ai sentimenti”. “
(1) https://journals.openedition.org/cei/463?lang=it
(2) https://www.ansa.it/sito/notizie/cultura/libri/narrativa/2021/09/02/ansa-boxdel-giudice-torna-in-libreria-stadio-di-wimbledon_9e3c9838-a8ee-48cc-9
(3) https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a26949368/daniele-del-giudice-atlante-occid