Le poesie di Chuck Palahniuk nel romanzo “Cavie”
Strano a dirsi ma Chuck Palahniuk, romanziere statunitense noto in Italia e nel mondo per l’opera di culto “Fight Club”, per lo stile minimalista di stampo cannibale e per il nichilistico humour nero, non è solo prosa. Nella sua ormai quasi trentennale carriera, che lo ha visto pubblicare diciotto romanzi, diversi racconti e alcuni saggi, la sua produzione comprende anche ventuno di poesie. Tutte opportunamente celate all’interno del romanzo “Haunted”, edito in Italia da Mondadori col titolo di “Cavie”. Non uno dei suoi più riusciti, comparandolo ai precedenti. Complice la struttura statica, dal vaghissimo sapore boccaccesco, che azzera l’ambientazione e rende la lettura pesantemente claustrofobica, “Cavie” è una serie di racconti scritti dai protagonisti del romanzo: figure strampalate dai soprannomi strani e dal passato torbido che si ritrovano loro malgrado segregate in una speciale comunità per aspiranti scrittori. I racconti narrano di quel passato. Essi sono intervallati da capitoli dove la trama del romanzo scorre e da poesie concernenti gli autori dei racconti.
Quel che ne esce è un esperimento interessante sul rapporto tra narrativa e poesia. Una finestra sulle capacità liriche del romanzo e sul potere diegetico dei versi.
Con il primo che sacrifica agilità e spinta in nome di una densità che fa collassare l’opera su sé stessa, mentre i secondi sembrano più orpelli; accessori e ghirigori e decorazioni che però, dietro il ruolo funzionale e il citazionismo immanente alla struttura fissa dei versi e del lessico, rivelano un Palahniuk raro che non deve andare perduto. Anche se l’autore ridurrebbe la cosa a un esercizio di stile, probabilmente.
Dopo la poesia di apertura, che trasuda le vibrazioni di un coro greco, la prima poesia è una lirica in versi sciolti dedicata al personaggio di San Vuotabudella, un’ex promessa del football liceale che, a seguito di un tragico e imbarazzante incidente in piscina, ha perduto gran parte del proprio tratto intestinale, divenendo poi anoressico. La poesia parla delle aspettative tradite e del ripudio familiare, ma anche dell’ossessione della società americana per la corporeità. Il linguaggio di Palahniuk, qui condensato al suo massimo, scova in sé un’incisività e una forza inedite nonostante l’inabituale veicolo espressivo. Qualcuno potrebbe scambiarla per volgarità spicciola o artificiale, atta unicamente a stupire, ma da scrittore in erba quale sono anche io ritengo che le cose vadano chiamate col loro nome. Perciò ben venga anche un linguaggio crudo e diretto, purché vero, centrato, non gratuito. Dove poi sia il confine tra buongusto ed esigenza narrativa, finanche in poesia, è una questione di lana caprina, dato che il canone, visti i tempi, non ha più il lusso di mantenersi fisso, ma deve anzi rimodularsi in base alla liquidità esplorata e ampliata dal linguaggio. Certo, la crudità ce la si deve poter permettere. Altrimenti il risultato sarò quello di apparire ridicoli, pretenziosi o puerili. Dico ciò perché, come sopraccennato, la poesia “Monumenti” dedicata a San Vuotabudella, così come il racconto che lo vede protagonista, contiene espliciti riferimenti a oggetti all’apparenza per nulla poetici: masturbazione, deiezioni, fluidi corporei vari, l’americanissimo culto della celebrità e, per non farsi mancare nulla, un dramma familiare introiettato e ignorato per comune quieto vivere.
Un estratto:
San Vuotabudella sul palco, le braccia incrociate sul petto.
Così magro
che le sue mani si sfiorano al centro della schiena.
Ecco San Vuotabudella, con un unico strato di pelle
dipinto sullo scheletro.
Le clavicole che sporgono dal petto, grosse
come maniglie.
Le costole che spuntano dalla maglietta bianca, e la cintura
– invece del sedere – a reggergli i blue jeans
(…)
Tutte le poesie presentano numerose stanze e sono strutturate in versi sciolti. Non fanno del linguaggio il loro epicentro, ma la storia che raccontano. Deformazione professionale, poca voglia di staccarsi dal proprio midollo, ma pure, se lo ribaltiamo di segno, un esperimento interessante – appunto – che permette di analizzare quanto il minimalismo cannibale riesca a farsi poesia e a suonare poetico. E quanto, nella brevità imposta dai versi, si riesca a raccontare qualcosa. Anche l’articolazione diegetica all’interno delle singole poesie segue uno schema fisso. Ogni poesia comincia con un discorso diretto. Una frase rivelatoria, una chiave di volta per interpretare il personaggio e capirne la natura, le origini, il dramma che lo ha condotto a essere lì. A ciò segue la formula leitmotiv “Nome del personaggio, sul palco, caratteristica principale” a cui, una stanza più sotto, segue l’altrettanto fisso: “Sul palco, al posto del riflettore, il frammento di un film”. Una soluzione che fa eco alla monotonia dell’ambientazione, una villa impenetrabile dalla quale non è consentito uscire. Ogni personaggio è chiamato a raccontare pubblicamente sé stesso al corteo di colleghi. Una parodia delle classi di scrittura creativa e del momento dove si confrontano gli elaborati.
Per la propria ispirazione, Palahniuk, del resto, ha sempre detto di seguire un solo diktat, ossia: “Scrivo di ciò che odio”.
Anche se le sedute di scrittura e lettura collettive lo hanno portato a stringere legami importanti e duratori, oltre che a indirizzarlo verso il proprio particolarissimo stile. Tornando alla struttura delle poesie, dopo l’intro segue il monologo del personaggio, un rigurgito anti-qualcosa attraverso il quale il cantore pontifica sulla brutalità dell’oggetto poetico. Per San Vuotabudella, esso è il ripudio subito dalla propria famiglia. Per il personaggio di Madre Natura, una hippie new age in fuga dalla mafia, sono gli standard accademici. Per Miss America e Lady Barbona quelli estetici. Per il Conte della Calunnia, giornalista caduto in disgrazia, è la ricerca ossessiva di un significato, quando tutto, invece, è mera cronaca. Un circo dove i vitelli d’oro creati dai media vanno poi distrutti per perpetuare il ciclo senza fine del consumo. Ma il linguaggio sulla carta per niente poetico non deve ingannare.
I poeti, anziché circoscrivere la poesia a una definizione enciclopedica, si dilettano a darne una poetica. I poeti mediocri parlano come verseggiano, creando una dissonanza che ha del ridicolo. Tale pratica convince il pubblico che il poeta sia una maschera che millanta di conoscere la verità, al pari di un politico arruffone o di un venditore di fumo. E che solo attraverso un linguaggio vestito a festa la poesia possa dirsi tale. Nulla di più falso, ad avviso mio e di Chuck Palahniuk. La poesia, anche in virtù della sua natura, della giocosità delle definizioni di cui sopra e del proprio spirito, passa anche per le sue antitesi. Di conseguenza, pure un linguaggio crudo e prosastico può arrivare a essere poesia. Laddove per prosastico non s’intende un linguaggio dove le frasi sono frasi di prosa spezzettate in versi, ma un linguaggio che non si avvale di parole auliche o il cui unico scopo è essere mezzo per ricercare un suono o un’immagine poetica, nel solco di uno stile limericko ma, come tradizione italiana vuole, per nulla umoristico.
Invece c’è tanta comicità in Palahniuk. Anche le situazioni più grottesche, violente e nauseanti finiscono con l’essere smorzate e rese più digeribili dalle sue sferzate umoristiche, che prendono di mira la stupidità e l’ipocrisia della società. Una società le cui criticità e le cui isterie sono incarnate dai personaggi-autori dei racconti, nonché muse delle poesie che li riguardano. Ventuno poesie, ventuno racconti. Almeno una poesia e un racconto per ogni personaggio, due per il signor Whittier, l’oscuro organizzatore del ritiro per scrittori al quale i partecipanti si ritrovano intrappolati. Il tema dell’intrappolamento è il tema cardine e sotterraneo di tutte le opere del libro. I personaggi sono forzati alla creatività. Non possono più procrastinare o fuggire dal proprio passato. Un ritorno nel mondo esterno senza un’opera che possa redimerli – redimerli in termini di prestigio, fama e ricchezza al punto da risultare intoccabili – equivarrebbe a un suicidio. Cavie, e le poesie al suo interno, raccontano insomma l’ennesima stortura del sogno americano. L’oscurità dietro la luce dei riflettori. Versi forti che non provano a innalzarsi verso il metafisico, ma si mantengono a terra, attraverso la concreta e corporale lingua della disperazione. Niente è risparmiato alla mannaia della parola frustrata. Persino il concetto di Dio viene trattato alla stregua di un prodotto. E non ci sono verità proclamate o sussurrate, ma mostrate attraverso la forza dell’immagine scritta. Verità vuote, dolorose, ciniche. Che sguazzando nella misantropia più disillusa. Forse non il tipo di poesia a cui siamo abituati o, per meglio dire, assuefatti al giorno d’oggi, alla continua ricerca di una voce estranea e professionale che ci dica che andiamo bene così, o che possiamo migliorarci perché il miglioramento è nel nostro destino, se sposeremo il loro programma o scaricheremo la loro app. Queste poesie sono un dito medio alla comfort-zone. Uno schiaffo al lirismo delle piccole e grandi cose. Tutto contiene una fregatura. E anche ciò che è naturale è destinato a divenire artificiale attraverso le sue repliche, la sua riproduzione a campione. La morte dell’aura dell’arte, del qui e ora benjaminiano, in Palahniuk diviene cadavere vilipeso, prodotto pop abbondonato all’angolo di una strada. Con la poesia, a sua volta, destinata a morire, dovendo passare dal tritacarne industriale che è la nostra vita, il nostro passaggio su questa Terra, baluardo e bandiera pirata della civiltà.
Erosione
Una poesia sul signor Whittier
(…)
Combattiamo guerre. Combattiamo per la pace. Combattiamo la fame. Adoriamo
combattere.
Combattiamo e combattiamo e combattiamo, con le armi o con la bocca o col denaro.
E il pianeta continua a non migliorare nemmeno un po’ rispetto a com’era prima di noi.
Chino in avanti, con le mani a ghermire i braccioli della
sedia a rotelle,
mentre gli eserciti da cinegiornale gli marciano in faccia con quei tatuaggi mobili
di mitragliatrici e carri armati e artiglieria
il signor Whittier dice: «Forse viviamo esattamente nel modo in cui siamo tenuti a vivere.
«Forse questo pianeta-fabbrica sta lavorando le nostre anime… com’è giusto che sia».
Gli estratti delle poesie riportate sono tratti da “Cavie” di Chuck Palahniuk (Mondadori, 2005) nella traduzione di Matteo Colombo e Giuseppe Iacobaci.