Kamala Das, L’età della pietra

Kamala Das, L’età della pietra

 

Fotografia di Kamala Das @DanHusain Twitter

 

Poetessa e scrittrice indiana nata Kamala Madhavikutty successivamente Kamala Surayya, (Punnayurkulam, Kerala, 31/3/1934 – Pune 31/5/2009) è considerata in India la voce più incisiva e autorevole della moderna poesia indiana in lingua inglese, non a caso è stata definita sulle pagine del Times “la madre della poesia indiana moderna in lingua inglese”. Una figura coraggiosa, controversa per i temi forti affrontati nella sua poesia e per le scelte di vita, così controcorrente. Parlava e scriveva in diverse lingue (inglese, hindi e malayalam) e si dava vari nomi. Ha assunto il nome “Das” dopo il matrimonio. È anche Kamala Suraiya, il nome che ha preso dopo essersi convertita all’Islam nel 1999. Madhavikutti è lo pseudonimo che si è data scrivendo in malayalam, e infine è anche “Ami”, un nome che si è riservata nelle sue memorie, l’autobiografia My Life, in italiano La mia storia (Il Punto d’Incontro, 2007) che scrisse nella sua lingua d’origine e poi tradusse in inglese. La scrittura sembra essere sgorgata da Kamala in maniera naturale, dando vita ai suoi numerosi avatar. Non c’è da meravigliarsi, considerando che è nata in una famiglia di scrittori: il padre era un noto giornalista, sua madre, Balamani Amma, una scrittrice acclamata dalla critica che ha pubblicato oltre 20 antologie di poesia; anche suo zio, Nalapat Narayana Menon, era poeta e traduttore.

Essendo cresciuta in un ambiente ricco di lingua e cultura, Kamala ha iniziato a scrivere quando era giovane. Ha trascorso la sua infanzia divisa tra Calcutta (l’odierna Kolkata), dove lavorava suo padre, e la casa dei suoi antenati a Punnayurkulam, Kerala. Disillusa e infelice a scuola e sentendosi distante dalla sua famiglia, Kamala ha iniziato a scrivere a tempo pieno e all’età di 15 anni ha sposato un parente più anziano, dirigente di banca, Madhav Das, che tuttavia la incoraggiò a scrivere. Di famiglia strettamente hindu di antica tradizione conservatrice, a 65 anni, dopo la morte del marito, abbandonò la religione hindu per convertirsi all’Islam, religione del suo più giovane nuovo compagno Sadiq Ali e assunse il nome di Kamala Surayya, anche se poi riterrà un errore quella scelta.  La sua fama la portò in tutto il mondo, a tenere corsi e conferenze in università, festival letterari, istituzioni culturali. Fondò anche un partito, il Lok Seva Party, in favore di madri single e orfani. Alla sua morte il corpo tornò in Kerala e le furono tributati i funerali di Stato.

 

Kamala Das

 

THE STONE AGE

 

Fond husband, ancient settler in the mind,
Old fat spider, weaving webs of bewilderment,
Be kind. You turn me into a bird of stone, a granite
Dove, you build round me a shabby drawing room,
And stroke my pitted face absent-mindedly while
You read. With loud talk you bruise my pre-morning sleep,
You stick a finger into my dreaming eye. And
Yet, on daydreams, strong men cast their shadows, they sink
Like white suns in the swell of my Dravidian blood,
Secretly flow the drains beneath sacred cities.
When you leave, I drive my blue battered car
Along the bluer sea. I run up the forty
Noisy steps to knock at another’s door.
Through peep-holes, the neighbours watch,
They watch me come
And go like rain. Ask me, everybody, ask me
What he sees in me, ask me why he is called a lion,
A libertine, ask me the flavour of his
Mouth, ask me why his hand sways like a hooded snake
Before it clasps my pubis. Ask me why like
A great tree, felled, he slumps against my breasts,
And sleeps. Ask me why life is short and love is
Shorter still, ask me what is bliss and what its price…

 

 

L’ETÀ DELLA PIETRA

 

Dolce marito, colono antico nella mente,
vecchio ragno grasso che tesse tele di perplessità,
sii gentile. Mi trasformi in un uccello di pietra, una colomba
di granito, mi costruisci attorno un salottino da poco,
e accarezzi distratto la mia faccia butterata mentre
leggi. Parlando ad alta voce acciacchi il mio sonno pre-mattutino,
mi cacci un dito nell’occhio che sogna. Eppure,
uomini forti gettano ombre sui miei sogni diurni, sprofondano
come soli bianchi nel gonfio mare del mio sangue dravidico,
in segreto le fogne scorrono sotto le città sacre.
Quando te ne vai, guido la mia macchina blu scassata
lungo il mare ancora più blu. Salgo di corsa quaranta
rumorosi gradini per bussare alla porta di un altro.
Dagli spioncini, i vicini guardano,
mi guardano venire
e andare come la pioggia. Chiedete, tutti quanti, chiedetemi
cosa ci trova in me, chiedete perché è chiamato il leone,
il libertino, chiedetemi il sapore della sua
bocca, chiedete perché la sua mano ondeggia come un serpente incappucciato
prima di afferrarmi il pube. Chiedete perché
come un grande albero abbattuto, s’accascia sul mio seno
e dorme. Chiedete perché la vita è breve e l’amore è
ancora più breve, chiedetemi cos’è delizia e quale il prezzo…

 

(traduzione di Andrea Sirotti)

da The Old Playhouse and Other Poems, Orient Longman, Delhi 1973

 

tradotta in L’India dell’anima,antologia di poesia femminile indiana contemporanea in lingua inglese, a c. di Andrea Sirotti, Le Lettere, Firenze 2000.

 

 

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