Il linguaggio della violenza di genere: esplicitare strutture e anticipare percezioni

di Yuleisy Cruz Lezcano

 

Il linguaggio è un paradigma delle finestre mentali, attraverso cui la persona esprime il mondo che percepisce. In genere quello che la persona vede del mondo sociale è ciò che oggettivamente vi esiste, ma la persona lo vede nel modo in cui il suo paradigma di concetti, categorie, assunti e pregiudizi lo interpreta. Ed è il linguaggio l’elemento essenziale per comunicare questa interpretazione, ecco perché ha il potere di plasmare le nostre percezioni e di dare voce a esperienze spesso invisibili. Nella società contemporanea, la necessità di un nuovo linguaggio per descrivere la violenza di genere, in particolare il femminicidio, la violenza psicologica, lo stalking e la violenza sui minori, è fondamentale per affrontare e combattere questi fenomeni.
La chiave di lettura per modificare il linguaggio della violenza è comprendere lo spartiacque tra il processo sociale di “etichettamento” naturale mediante l’uso del linguaggio per raggruppare uno specifico fenomeno e l’uso del linguaggio per creare una subcultura collegata all’accettazione/ negazione della gravità della violenza.
Molte forme di violenza sono radicate in strutture sociali e culturali esistenti. Un linguaggio che esplicita queste strutture permette di riconoscere e analizzare i meccanismi che le sostengono.

Per esempio, l’uso di termini come “patriarcato” e “discriminazione di genere” può aiutare a identificare le cause profonde della violenza.

Un linguaggio che unisce l’analisi critica a esperienze personali può creare consapevolezza e mobilitazione. Comunque, il linguaggio non solo descrive ma anticipa la percezione di fenomeni. Ad esempio, l’uso di frasi come “la violenza inizia quando ti dicono una determinata frase…” può far comprendere come le “micro-aggressioni” quotidiane siano i primi segnali di un comportamento violento. Parole che descrivono la manipolazione, il controllo e l’isolamento possono preparare le vittime e la società a riconoscere segnali di allerta prima che la violenza diventi esplicita. La normalizzazione di un certo tipo di linguaggio, a volte diventa non solo un fenomeno tollerato, ma anche accettato e in qualche modo condiviso da ampi strati della popolazione.
Il linguaggio quindi serve per descrivere un dato fenomeno, può servire per normalizzarlo o per renderlo meno astratto. Il linguaggio è cultura, educazione e massificare certi tipi di termini che definiscono la violenza contro le donne e i bambini, ha contribuito alla sua comprensione.
Chi si occupa di violenza di genere dovrebbe conoscere i paradigmi che stanno dietro ai vari significati, così da comprendere non solo i modelli comportamentali che racchiudono la sua genesi. Alcune indicazioni sono indispensabili per costruire un modello alternativo. Per esempio quando un giornalista si specializza in questo tipo di cronaca, una volta che impara i paradigmi che narrano le storie, riesce a descrivere i fatti senza contribuire a perpetuare la violenza e senza danneggiare psicologicamente la vittima; acquisisce tecniche, metodi e criteri, in una mescolanza inestricabile, che non solo fa assumere una corretta comunicazione del fenomeno ma consente di diffondere cultura per contrastarlo.
Un paradigma è una prospettiva o un quadro di riferimento per osservare il mondo sociale, ed è composto da una serie di concetti assunti, che se usato correttamente, può entrare nel circuito dei valori modificando agli altri la visione del mondo. Chi si occupa di comunicazione mediatica, di educazione e formazione, deve assumere un linguaggio che orienta. Nessuna visione di un certo fenomeno può essere trasformata e reinterpretata in assenza di credenze metodologiche e teoretiche incrociate tra loro che permetta la scelta, la valutazione critica di cosa comunicare, cosa omettere, come farlo e in quali momenti farlo.
Un linguaggio efficace deve anche essere in grado di descrivere l’esperienza vissuta dalle vittime. Utilizzare narrazioni personali, testimonianze e storie può rendere la violenza più tangibile e meno astratta. Termini come “ferite invisibili” possono descrivere il dolore psicologico della violenza domestica, mentre frasi evocative possono illustrare il trauma che si porta dentro. Utilizzare espressioni come “omicidio di genere” mette in evidenza il contesto culturale e sociale in cui avviene, mentre “violenza sistemica” richiama l’attenzione sulla necessità di riforme legislative e culturali.
Per la violenza psicologica e lo stalking, termini come “controllo coercitivo” e “violenza relazionale” offrono una comprensione più profonda e articolata. Allo stesso modo, nel contesto della violenza sui minori, l’espressione “abuso invisibile” può rendere palpabili le esperienze di bambini che subiscono violenza in modi sottili ma devastanti.
Il linguaggio è uno strumento potente nella lotta contro la violenza di genere e la poesia ha il merito di creare immagine per raccontare il mondo.

La poesia sa come esplicitare le strutture già presenti, anticipare la percezione e descrivere l’esperienza; può consentire di percorrere quei passi fondamentali per sviluppare un linguaggio nuovo e consapevole.

Questo non solo aiuta a sensibilizzare l’opinione pubblica, ma può anche promuovere un cambiamento culturale profondo, necessario per prevenire e combattere efficacemente la violenza di genere in tutte le sue forme.
Consapevole del potere dell’arte, della letteratura e soprattutto della poesia, quest’anno ho pubblicato il libro «Di un’altra voce sarà la paura», che nel giro di pochi mesi è divenuto uno strumento prezioso per educare al sentimento e all’empatia. Essere chiamata in diversi contesti per dialogare con le persone, per farle sentire parte importante di questa lotta, ha comportato per me uno stimolo per continuare a fare ricerca, a impregnare la comunicazione di realtà, oltre che a studiare diverse buone pratiche per promuovere relazioni sane.

Parliamo di bambini e di me bambina
La violenza assistita o violenza vicaria è una realtà straziante che colpisce non solo le vittime dirette, ma anche i più vulnerabili: i bambini. Questi piccoli spettatori di drammi familiari vivono un’esperienza emotivamente devastante, che segna il loro sviluppo e influisce sul loro futuro. Questo concetto mette in evidenza come la violenza non colpisca solo la vittima immediata, ma possa estendersi a un intero nucleo familiare, creando cicatrici emotive durature. Utilizzare il termine “violenza vicaria” aiuta a comprendere le conseguenze sistemiche della violenza di genere, sottolineando l’importanza di affrontare il problema in modo olistico.
Immaginate un bambino che torna a casa con la madre, dopo che questa è andata a prenderla a scuola. I due arrivano a casa e trovano un patrigno ubriaco che urla e che picchia davanti a lui la madre. Poi immaginate questo bambino che piange abbracciato al corpo della madre per interrompere la sequenza di colpi, a costo anche di essere picchiato anche lui. Sicuramente sentite anche voi le lacrime infantili che ascoltano le urla. Lo sentite? Sta mandando via, urlando, l’aggressore, urla con le vene del collo esposte dalle grida. La sua piccola voce si fa quasi grande “basta! basta, lascia stare mia mamma!” E poi tutti e due, madri e bambino riescono a scappare in strada, cercando la porta amica di un vicino di casa. Sapete, questo bambino sono io! L’angoscia che ho provato è incommensurabile: un misto di paura, impotenza e confusione. Sapevo cosa stava accadendo, ma non riuscivo a fare nulla. Questo bambino è in me, ho vissuto una violenza non solo nei confronti di mia madre, ma anche dentro di me. La mia innocenza è stata strappata via, lasciandomi un vuoto profondo.
I bambini esposti a situazioni di violenza assistita sviluppano spesso ansia, depressione e problemi di comportamento. Il loro mondo interiore è costellato di domande senza risposta: “Perché succede tutto questo?” “È colpa mia?” Queste domande li accompagnano anche negli anni successivi, influenzando le loro relazioni e la loro percezione del mondo.
La violenza assistita o la violenza vicaria è un termine che indica il dolore inflitto ai bambini attraverso la sofferenza del genitore. Quando assistono a atti di violenza, i bambini non solo assistono a un evento traumatico, ma vivono un’ingiustizia che li colpisce direttamente. Il linguaggio di questa violenza è complesso; spesso è silenzioso, fatto di sguardi carichi di paura e di parole non dette, di lacrime. Le emozioni vengono trasmesse in modi che superano il linguaggio verbale, creando un clima di terrore che permea l’ambiente domestico.
Io ho cercato di descrivere tutto questo con immagini, usando come strumento la poesia.
La cultura gioca un ruolo cruciale nel plasmare la percezione della violenza. Linguaggi e narrazioni comuni spesso giustificano o minimizzano la violenza di genere, influenzando anche la comprensione della violenza assistita. Secondo studi condotti da esperti come Michael Kimmel e Raewyn Connell le norme di genere dominanti alimentano un ciclo di violenza che si riflette nei comportamenti quotidiani. Queste teorie evidenziano come il linguaggio della violenza di genere si intrecci con le nostre narrazioni culturali, rendendo difficile scardinare le radici di questa problematica.
Organizzazioni come Amnesty International hanno evidenziato l’urgenza di affrontare la violenza assistita come una questione di diritti umani. La sensibilizzazione è fondamentale: è necessario dare voce ai bambini che vivono queste esperienze, permettendo loro di esprimere il loro dolore e le loro paure. Le campagne di educazione e sensibilizzazione devono mettere al centro le storie di questi bambini, utilizzando un linguaggio che non solo descriva la violenza, ma che renda tangibile l’emozione che essa porta con sé.
La violenza assistita è una ferita che colpisce il cuore della società. I bambini che ne sono vittime non solo assistono a un atto di violenza, ma vivono un’esperienza emotiva che segnerà il loro percorso di vita. È essenziale che come società ascoltiamo e accogliamo queste voci, creando uno spazio in cui possano essere narrate le loro storie. Solo attraverso la comprensione e la sensibilizzazione possiamo spezzare il ciclo della violenza e costruire un futuro più sicuro per i nostri bambini.
Adesso capite come nell’ultima parte del mio libro «Di un’altra voce sarà la paura» offro delle possibilità di riscatto attraverso la ricerca delle radici, dell’innocenza perduta, che sono alternative alla sofferenza continua e possibilità di ricostruirsi, di ritrovare sé stessi.

Continuiamo a parlare di linguaggio
Il linguaggio è uno strumento potente che non solo riflette la realtà, ma la plasma e la definisce. In tema di violenza di genere, le parole che usiamo possono influenzare la percezione e la comprensione di questi fenomeni, contribuendo a perpetuare stereotipi e norme culturali. Termini come “femminicidio”, “stalking”, “violenza vicaria” e “stupro” non sono semplici etichette, ma rappresentano realtà complesse che richiedono attenzione e riflessione.
Il termine femminicidio è stato coniato negli anni ’70 da Feminist Artists e attiviste per i diritti delle donne, per descrivere l’omicidio di donne in quanto donne. Questo concetto si è evoluto nel tempo, diventando un importante strumento di denuncia della violenza di genere. Il femminicidio non è solo un omicidio; è un atto che si inserisce in un contesto di odio e discriminazione, spesso alimentato da una cultura patriarcale che svaluta la vita delle donne. La diffusione di questo termine ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica e a promuovere leggi più severe contro la violenza di genere.
Il termine stalking, emerso negli anni ’80, descrive un comportamento persecutorio e invasivo che colpisce molte vittime, prevalentemente donne. La sua etimologia, che deriva dall’inglese “to stalk” (inseguire), evoca una dimensione di violazione e vulnerabilità. Attraverso questo termine, il linguaggio ha contribuito a rendere visibile una forma di violenza che spesso rimane nascosta. La consapevolezza e il riconoscimento dello stalking hanno portato a leggi specifiche in molti paesi, ma rimane fondamentale continuare a sensibilizzare la società su questo fenomeno.
Il termine stupro ha una storia complessa e il suo uso ha spesso contribuito a perpetuare una cultura del silenzio e della colpevolizzazione delle vittime. Spesso, il linguaggio usato nei dibattiti pubblici può minimizzare la gravità dell’atto, con espressioni che giustificano o relativizzano la violenza. Tuttavia, un linguaggio chiaro e diretto che definisce lo stupro come un atto di violenza e di potere è fondamentale per rompere il silenzio e sostenere le vittime nel processo di denuncia.
Il linguaggio ha un impatto profondo sulla cultura e sulla percezione della violenza di genere per la strutturazione del sistema di riferimenti simbolici. Termini come femminicidio, stalking, violenza vicaria e stupro non sono solo parole; sono indicatori di una cultura che deve essere interrogata e trasformata. Per affrontare e combattere la violenza di genere, è essenziale sviluppare un linguaggio che denunci, sensibilizzi e riconosca la gravità di queste esperienze. Solo così possiamo costruire una società più giusta e sicura per tutti.
il linguaggio usato per definire violenze affini se pure ascrivibili per documentare storie diverse orienta nella lettura del fenomeno. Se poi pensiamo al fenomeno descritto tramite la poesia, le storie possono essere riconducibili ad immagini, a una riflessività di appropriazione delle parole, che si allontanano dal fenomeno di emulazione e di panico morale che può generare la cronaca; si allontanano dalla distorsione dei fatti e dagli slogan e dalle interpretazioni a volte volutamente distorte, per entrare in un altro modo nella realtà, senza creare distanze emotive tra la realtà e la sua rappresentazione. Per esempio nel mio ultimo libro, consapevole di tutto questo, la mia poesia non riporta i fatti in maniera seducente, ma ci è entrata con la carne delle parole nei fatti, per creare empatia verso la vittima, per cercare di ricomporre qualcosa che si è spezzato, senza innalzare confini.
Credo che la poesia abbia il potere di penetrare nelle profondità delle emozioni umane, rendendo tangibili esperienze spesso invisibili. In un contesto come quello della violenza di genere, il linguaggio poetico diventa un mezzo potentissimo per esplorare, denunciare e comprendere fenomeni complessi come il femminicidio, lo stalking, la violenza vicaria e lo stupro. Questi termini, che rappresentano una realtà inquietante, non sono solo parole; sono la manifestazione di sofferenze, ingiustizie e resilienza.
Termini come “stalking” e “violenza vicaria” vengono spesso affrontati nella poesia con un linguaggio che non teme di mostrare il dolore e la vulnerabilità. Attraverso versi che raccontano l’angoscia e l’isolamento delle vittime. La poesia crea uno spazio in cui si può riflettere su queste esperienze. Il linguaggio può trasformare la sofferenza in resistenza e speranza.
La poesia non solo esprime il dolore, ma offre anche una critica alla cultura che alimenta la violenza di genere. Utilizzando le parole come strumenti di denuncia, i poeti possono mettere in luce gli stereotipi e le norme sociali che perpetuano la violenza. Attraverso l’arte, si può interrogare la società su come tratta le vittime e su come costruisce le relazioni di potere.

La voce delle vittime
Infine, la poesia permette alle vittime di esprimere il proprio vissuto in un modo che le parole comuni spesso non riescono a catturare. Quando una persona scrive una poesia sul proprio trauma, può trasformare il dolore in arte, creando un legame profondo con chi legge. Queste opere possono servire da fonte di conforto e comprensione, offrendo un rifugio emotivo e una connessione umana. In questo senso, la poesia diventa uno strumento di guarigione, un modo per elaborare esperienze traumatiche e riconnettersi con la propria identità. Attraverso la poesia, possiamo non solo riconoscere il dolore degli altri, ma anche affrontare le ingiustizie e promuovere un cambiamento culturale. In questo modo, le parole diventano strumenti di liberazione e speranza, un modo per costruire una società più empatica e consapevole.

Conclusioni
La poesia, nella sua essenza, è un riflesso della condizione umana. Aristotele, nella sua «Poetica», offre una chiave di lettura fondamentale attraverso i concetti di catarsi e mimesi. Questi strumenti possono rivelarsi particolarmente utili nel contesto della violenza di genere, permettendo di esplorare e comprenderne le dinamiche.
La catarsi è il processo attraverso il quale l’arte provoca una purificazione emotiva nello spettatore. Nel caso della poesia, questo avviene attraverso l’evocazione di emozioni forti, come la paura e la pietà. Aristotele sostiene che la tragedia, ad esempio, consente al pubblico di vivere in modo vicariante le esperienze drammatiche, permettendo una riflessione profonda sulla condizione umana e sulle sue sofferenze.
La mimesi, d’altra parte, si riferisce all’imitazione della realtà. La poesia, nella sua capacità di rappresentare la vita e i suoi dilemmi, diventa uno specchio attraverso il quale possiamo osservare e analizzare il comportamento umano. Questo è cruciale quando si tratta di questioni come la violenza di genere, che spesso è radicata in dinamiche sociali e culturali complesse.
Il linguaggio utilizzato per affrontare la violenza di genere deve essere scelto con attenzione. Le parole possono sia ferire che guarire, quindi un poeta può scegliere la propria rappresentazione poetica.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

error: Content is protected !!