Frammenti e abissi, lettura de “Il ramo spezzato” di Karen Green
Pubblicato originariamente nel 2013 per i tipi della Siglio Press, e poi tradotto e diffuso in italiano da Baldini+Castoldi nel 2018 in edizione limitata, “Il ramo spezzato” è un memoir d’immagini e frammenti di prosa poetica attraversi i quali Karen Green, artista e scrittrice americana, svela gli abissi di tenerezza e assenza legati alla vedovanza.
Green era la moglie del noto romanziere e saggista David Foster Wallace, autore di libri acclamati quali l’arguto “La scopa del sistema” e il mastodontico “Infinite Jest”.
Green e Foster Wallace sono stati sposati dal 2004 al 2008, anno del suicidio dello scrittore.
In questo libro, Green affronta e condivide con i lettori l’oscurità entro la quale la perdita del coniuge ha gettato la sua vita. Lo fa affidandosi a una prosa che è venata di poesia, ove sonda ricordi, dettagli e oggetti divenuti simulacro di un’intimità rapita, interrotta, spezzata come il ramo del titolo.
La struttura dell’opera ricalca quella di una raccolta poetica: ogni pagina è uno spazio sacro dove, con il suo stile minimale, articolato su frasi concise e talvolta dolorosamente sardoniche, l’autrice assembla immagini mosaiche per ridare slancio a ricordi e momenti che riflettono, come in un gioco di specchi, la conflittualità tra un passato felice forse non così felice, e un presente grigio, nel quale perdita e speranza si mescolano e si alternano in continuità. Talvolta sovrapponendosi, talvolta relegandosi agli estremi dello spettro. Nel mezzo, il ricordo vivo – troppo vivo – della persona amata. Uno scrittore geniale, ma anche un uomo non privo di difetti e lati oscuri.
Coloro che però si aspettavano un libro sensazionalistico, improntato sulla spettacolarizzazione del dolore, e dunque infarcito di rivelazioni a metà tra l’aneddotica biografica e il gossip più morboso, saranno rimasti delusi. Karen Green ha sì consegnato al pubblico la privatezza del suo dolore, ma previo una precisa scelta stilistica, che denota non solo – a posteriori – il suo estro letterario, ma anche e soprattutto il rispetto verso la sacralità del lutto. Nonché, forse, il suo risentimento verso i media americani che, nel raccontarla al pubblico mainstream, hanno coscientemente, per esigenze di semplificazione, ridotto la sua persona allo status di vedova. I più cinici potrebbero obiettare come lei per prima abbia cavalcato quest’onda – in un’intervista Green ammette che per lei, essere la vedova di Foster Wallace, era divenuto una sorta di lavoro, i primi anni – ma sarebbe inesatto.
Green è stata chiamata ad amministrare e gestire l’eredità artistica del marito – a condividerlo col mondo – in un momento in cui, presumo, avrebbe invece desiderato proteggerlo – e proteggersi – da tutta la fanfara mediatica. Ha dunque fatto di necessità virtù, per poi, anni dopo, spiazzare tutti con questo libro.
Un’opera il cui centro e perno è assente, vuoto, inabissato come un buco nero al collasso. Sfogliare e leggere le pagine de “Il ramo spezzato” è sfiorare quel vuoto. È immaginarlo, sentirlo e, nonostante tutto, rimanerne fuori. Troppi i dettagli scontornati da un contesto più ampio che però non ci appartiene, non ci riguarda. Troppe le messe a fuoco fuori fuoco, gli scampoli di un quadro generale che è lasciato al bianco del foglio, allo spazio tra i paragrafi, a ciò che le parole non dicono. Troppo il dolore che emerge da quelle immagini di vita che Green concede con più nitidezza all’occhio del lettore.
Prima che io andassi al lavoro eravamo sotto l’ulivo e tu ti stavi facendo quella che chiamavi una fumata da paziente psichiatrico e hai detto: non voglio essere Satana ma ti va di farmi compagnia e ci siamo tirati su le magliette per strofinarci le pance una contro l’altra e la tua era molto più piatta ma piena di pane del giardino comunque comunque ci siamo alzati le magliette, petto contro petto, ed era un rituale rassicurante che compivamo ogni giorno e ho detto: Facciamolo per tutto il resto della nostra vita. Tu hai detto: Che bella che sei.
È dura ricordare le cose tenere con tenerezza.
Scorrendo le pagine è possibile intravedere persino una cronologia del lutto. Operando una commistione di generi, Green utilizza tecniche diegetiche quali l’utilizzo di elementi ricorrenti – personaggi e ambienti – per dare una dimensione orizzontale alla raccolta. La verticalità è invece espressa dall’intensità e dalla profondità emotiva che la parola lirica riesce a scavare nel solco dell’impianto prosastico. Le immagini che intervallano i pezzi sono a loro volta frammenti di una vita lontana: francobolli, ritagli di giornale, cartoline, lembi di lettere e parole e sigilli di ceralacca… opere d’arte cadenzatamente disposte non solo per aumentare la corposità al libro, ma anche per restituire la frammentarietà della memoria, e dunque della vita.
Il risultato è un libro così atipico e peculiare che non può far rimanere indifferenti. La sua fruizione potrebbe o estasiarvi o lasciarvi molto insoddisfatti. Un lato della nostra persona forse avrebbe desiderato davvero che Green ci raccontasse in maniera più esplicita la persona di David Foster Wallace. Che tipo di abitudini avesse, quali fossero le sue opinioni sull’attualità… cose di questo genere. Green lo fa, ma trincerandosi dietro un ponteggio di metafore che attingono al quotidiano più sperduto. Come detto poco sopra, è possibile scorgere un’evoluzione della Green narratrice. Il modo in cui affronta il lutto, gli antidepressivi, le capatine al jazz club locale, l’incontro ricorrente con estranei che sfiorano il suo cammino di elaborazione e perdita… ma l’assenza di punti cardinali e riferimenti cronologici precisi spinge l’opera verso una dimensione che supera quella del memoir classico.
Ed è attraverso una poesia nascosta nella prosa, che rimanda allo spirito ascoso entro la carne, che Green rivela al mondo il Wallace più intimo, privato dei suoi filtri e delle sue pose e delle sue paranoie, perché è lei a raccontarlo e a metterne in luce, tramite il vuoto dato dalla morte, la vitalità che l’animava, l’ossessiva ricerca di una pace interiore, la lotta contro il male oscuro della depressione. Vi è pertanto, pur attraverso il velo dell’artificio poetico, quella messa a nudo della vita che eleva “Il ramo spezzato” ben oltre il mero esercizio di stile. E scusate se è poco – non lo è, anche se a una lettura superficiale potrà sembrarvi così. Fidatevi, mettetevi in ascolto, calatevi nell’antro. Non è così.
Parlano di lui come se fosse normale che sia morto e questo mi fa incazzare. Quella roccia è un’anca. Non tutto quello che sono o che eravamo ha a che fare con le conche e le ombre del dolore. La morte eccita le persone, ma da lontano. Ho ancora voglia di raccontargli delle storie, il che va benissimo, il che andava benissimo, ma adesso il sole è un demonio e io devo chiamare aiuto.
I brani riportati sono tratti da “Il ramo spezzato” di Karen Green, 2018.
traduzione di Martina Testa