LA VITA
Trilussa è lo pseudonimo anagrammatico con cui è divenuto celebre il poeta romanesco Carlo Alberto Salustri. È il terzo grande poeta romano comparso dall’ottocento in poi, dopo Belli e Pascarella.
Nasce a Roma il 26 ottobre 1871.
Orfano del padre a soli tre anni, ha un’infanzia poverissima e compie studi irregolari.
Esordisce giovanissimo nel 1887, componendo alcune poesie per il Rugantino di Luigi Zanazzo.
Intorno al 1890 pubblica sonetti sul Don Chisciotte diretto da Luigi Lodi, su Il Capitan Fracassa, sul Messaggero, del quale poi fu a lungo collaboratore, e su “Il travaso delle idee”.
Tra il 1913 e il 1920 andò ad abitare a Campo Marzio…
…ma no!
Non si può cominciare a raccontare la storia di questo poeta di statura così.
Anzi, forse da “statura” è possibile.
Trilussa era 2 metri, la sua altezza era definita leggendaria: baffi lunghi alla moda, un po’ all’insù, capelli ricci e scuri. Occhi tondi spesso divertiti, sempre attenti.
Vestiva di bianco, come Mark Twain, fazzoletto sulla giacca a tradire qualche piccola vanità, come l’abitudine di togliersi gli anni, tanto affinata che l’enciclopedia nazionale, per molto tempo, dichiarò il suo anno di nascita nel 1873, anziché nel ’71. Si parlò di una delle sue tante burle ben riuscite.
Preferiva le osterie ai circoli di poeti, la gente verace lo ispirava e parlò di quello che amava e di quello che non amava, mai sprecando parole per grigiume e depressione.
Odiava gli ipocriti, quelli che se ne approfittano, compativa i malvagi invecchiati e ha scritto sempre in odor di verità.
Non fu mai ricco, qualche volta in bolletta.
Sfiorò gli ottant’anni e fu tutto sommato felice, per essere un vero poeta.
Sul finire del suo viaggio fu nominato senatore a vita, troppo tardi affinché potesse godere, almeno economicamente, di un surplus meritato. Morì di fatto una ventina di giorni dopo la nomina. Aveva commentato il tardivo riconoscimento con una delle sue solite imbeccate: “mi hanno fatto Senatore a morte.
IL PENSIERO FEMMINILE
È con la favola e i personaggi simbolici che Trilussa trova la sua dimensione ideale.
Scriveva quello che pensava e viveva, con il nobile senso di giustizia di chi prende una posizione liberamente e senza tornaconto. Notevole è “L’Acqua, er Foco e l’Onore”, scritta cento anni fa, che tratta il tema, per noi attualissimo, del femminicidio domestico, con pungente originalità.
L’Acqua, er Foco e l’Onore
L’Acqua, er Foco e l’Onore
fecero er patto d’esse sempre amichi,
vicini ne la gioja e ner dolore
come s’usava ne li tempi antichi.
— Io ce sto: — disse l’Acqua — ma che famo
se quarchiduno de noi tre se perde?
Ce vonno li segnali de richiamo.
A me, me troverete ne li prati
pieni de verde e in più d’un’osteria
che vende er «vero vino de Frascati ».
— Correte dove vanno li pompieri.
— je disse er Foco — Quella è casa mia. —
L’Onore chiese: — E a me chi m’aripija?
In società ce capito de rado;
pe’ li caffè, lo stesso. Ormai nun vado
nemmanco ne le feste de famija.
È passata quell’epoca! D’altronne
me so’ invecchiato e poco più m’impiccio
d’affari, de politica e de donne.
Ho inteso a di’ che spesso
li mariti d’adesso
ammazzeno la moje a nome mio;
nun ve fate confonne: nun so’ io!
E state attent’a quelli
che fanno li duelli…
— Oh! sai che nova c’è? — je disse er Foco —
Ner caso che te perdi, fa’ un segnale:
se poi nun te trovamo è tale e quale,
ché in fin de conti servi a tanto poco!
L’EVOLUZIONE
Dai primi lavori popolari ha innalzato il suo intento. Se è vero che ha scritto sempre all’ombra di un campanile, pur sempre quello di Roma, il suo linguaggio italianizzato ha permesso a tutti di comprendere le sue rime. Gli animali come metafora, se recitano la parte degli uomini sono pieni di difetti, presi per quello che sono evidenziano innocenza e purezza. Chiappini, il mentore letterario di Carlo, fu allievo di Gioacchino Belli, il grande vate romanesco e insegnò al nostro i dettami della composizione poetica. L’allievo però tradì il maestro, affogando di italiano le sue metriche capitoline. Lo spirito romano ne risulta, a nostro umile giudizio, rafforzato e modernizzato. Non piacque ai puristi ma tutta l’Italia ebbe licenza di risata. Fate voi i conti.
In seguito fu invitato dall’élite romana Arcadia, un gruppo illuminato di poeti che fecero pensiero attraverso Accademia, vi entrò con lo pseudonimo di Tibrindo Plateo, lo stesso che usò il Belli. La storia parlerà di due giganti dissimili ma noi siamo un po’ romantici, ci piace affermare candidamente una possibile continuità tra Gioacchino Belli e Trilussa.
Per Trilussa tutto può divenire metafora, perfino la religione. Oggi è facile esser contro e criticoni, ai tempi del nostro Carlo la situazione era differente.
Il signor Salustri era determinato e vanitoso: due qualità che possono aiutare coraggio e amor proprio. Se qualcuno vestiva meglio di lui, si diceva, ci rimaneva male. Aveva l’abitudine di togliersi qualche anno ma aveva una buona parola per tutti, apparendo simpatico senza essere egocentrico.
Dalle rime spesso scappa via un commento sui suoi colleghi di scrittura, tali o presunti tali. Il clero era la vittima del Belli? Per Trilussa il gioco è a ribasso, abbassa i toni e trasforma il tutto in terreno, affinché si possa parlar di uomini, soggetti al difetto e quindi alla critica.
Trilussa, amante della vita romana, non esitava a fare tardi. Eppure si può definire un poeta del mattino. I suoi scritti sono pressoché solari, anche quando sono drammatici. La sua prima raccolta si chiama “Le stelle di Roma” dove la bellezza è il fulcro dei componimenti. Scriverà molto su amori e donne senza tralasciare satira politica e riflessioni sulla disparità sociale.
Prima di Totò è “Li burattini” che livella il genere umano dopo la morte e non risparmia neanche il Re.
Sopravvivendo a due guerre mondiali lascerà scritti di dolore.
Ma Trilussa è anche il poeta delle osterie, delle rime comiche dal gran finale.
A MIO GUSTO
Personalmente prediligo il Carlo, intimista e sognatore. La vita arriccia la pelle ma spiana i ricordi e i sentimenti. Questa è la poesia che preferisco di questo favoloso poeta.
Sogni
Da un anno, ogni notte, m’insogno e me pare
d’annà in un castello
che guarda sur mare;
nun sogno che quello.
C’è Pietro, er portiere, ch’appena me vede
se leva er cappello, s’inchina e me chiede:
— Sta bene, Eccellenza? Sta bene, padrone? —
E tutto contento richiude er portone.
Qualunque portiere che v’apre la notte
ve manna a fa’ fotte;
invece c’è Pietro che sente er bisogno
de dimme ‘ste cose gentile e sincere
che solo da questo capisco ch’è un sogno.
Che bravo portiere!
Er mastro de casa, ch’è un vecchio mezzano,
m’insegna una porta, me bacia la mano
eppoi sottovoce me dice: — È arrivata
la donna velata…
— Ma quale? — je chiedo — la pallida, forse,
che stava a le corse?
o quela biondina coll’abbito giallo
ch’ho vista in un ballo? —
È commodo e bello
d’avecce un castello
nascosto ner sonno,
ché armeno, la notte, ce faccio l’amore
co’ tante signore
ch’er giorno nun vonno .
— Der resto lei stessa,
signora duchessa,
co’ tutta la posa
superba e scontrosa,
m’accorgo che in sogno me tratta un po’ mejo
de quanno sto svejo.
Nun solo me guarda, ma spesso me dice:
— So’ propio contenta! So’ propio felice! —
— Davero? — je chiedo — ma allora perché
nun resti co’ me? —
E appena m’accorgo ch’ariva er momento
de dije sur serio l’amore che sento,
m’accosto, l’agguanto , la bacio… Ma allora
me strilla: — Sta’ bono. No, no… Me vergogno!… —
E solo da questo capisco ch’è un sogno;
che brava signora!
Nun ciò che un amico, sincero e leale,
che dice le cose papale papale ,
che quanno ho bisogno de questo o de quello
s’investe e m’aiuta, da vero fratello.
È a lui che confido le gioje e le pene
perché me capisce, perché me vô bene…
Infatti ogni notte lo vado cercanno
ner vecchio castello che sogno da un anno.
PER FINIRE
Per Carlo le tradizioni hanno un senso. Criticare è spingere alla riflessione. Durante il ventennio scriverà, non prenderà la tessera fascista ma dopo la guerra rifiuterà elogi per lui immeritati, degli affezionati dell’ultim’ora che salgono sul carro dei vincitori. Dirà di essere stato semplicemente non fascista: la sua coscienza equilibrata lo portò quindi a vedere tutto il male nascosto nel regime, con la libertà di un pensatore puro. Il relatore della sua opera omnia colloca questa poesia alla fine, forse per desiderio dello stesso Trilussa.
Felicità
C’è un’Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
La raccolta “Tutte le poesie” a cura di Pancrazi esce un anno dopo la morte di Trilussa. Nella prefazione, all’ultima riga, si può leggere “Trilussa ci manca…”
Per chi ha assistito alla sua partenza è stato certamente così, per noi che siamo venuti dopo, che lo abbiamo conosciuto già vincitore della morte, il pensiero è un sorriso di ammirazione e simpatia, d’un affetto tanto grande da sembrare assai raro, per questo ragazzone altissimo, con lo sguardo attento, i baffi alla moda, le maniere gentili ed un talento poetico unico ed ineguagliabile.
Ci perdoni, quindi, il Pancrazi, se a parer nostro, è “Favole…” la giusta chiusa per Carlo il favoloso, il poeta della favola, della realtà satirica, della denuncia elegante e interessata.
FAVOLE…
Pe’ conto mio la favola più corta
è quella che se chiama Gioventù:
perché… c’era una vorta…
e adesso nun c’è più.
E la più lunga? È quella de la Vita:
la sento raccontà da che sto ar monno,
e un giorno, forse, cascherò dar sonno
prima che sia finita…