“L’odore dell’acqua” di Kuroda Momoko: un viaggio nel mondo haiku e nella scoperta di sé

“L’odore dell’acqua” di Kuroda Momoko: un viaggio nel mondo haiku e nella scoperta di sé

 

“L’odore dell’acqua”, la raccolta di haiku di Kuroda Momoko, curata da Diego Martina, casa editrice dei Merangoli, evidenzia la sensibilità dell’autrice che è immersa completamente nella natura e ce ne restituisce ogni sfumatura di colore e suono, senza tralasciare la sua quotidianità concreta. “Lo sguardo di Kuroda – dice Diego Martina nella prefazione – è da sempre attento a cogliere la bellezza di un fiore o l’eleganza di una pianta” e nella lettura degli haiku della haijin si ha davvero l’impressione di guardare la natura con i suoi occhi, quasi fossero lenti d’ ingrandimento su ogni particolare che il creato ci dona. Ed ogni minimo dettaglio diventa essenziale nei componimenti della Maestra e foriero di risonanze interiori che, pur partendo dal vissuto dell’autrice, sanno parlare anche a noi che diventiamo partecipi del dialogo ininterrotto che Kuroda intrattiene con il cuore del mondo.

I kigo stagionali sono declinati in ogni minima sfaccettatura, a guisa di un prisma che rompendo il raggio di luce ci dona tutta la bellezza  dei colori dell’iride: spesso si ripetono, ma non per questo perdono di intensità e mi sento di paragonare gli haiku di Kuroda ai quadri di Monet: sempre diversi pur con gli stessi soggetti e pronti ad imprimere sulla tela ogni soffio di luce.

È una poesia di viaggio, quella di Momoko, di viaggio e pellegrinaggio: dai templi buddisti, alle feste, agli alberi di ciliegio, o agli otto chilometri a piedi che da bambina percorreva per andare e tornare da scuola, i suoi versi grondano amore per l’osservazione del mondo, senza escludere nulla e ogni sfumatura può trasformarsi in kigo o in successiva riflessione in cui l’io c’è, ma come parte del tutto:

 

Mele a bollire-

esser lenti a scrivere

non è una colpa[i]

Il kigo autunnale del primo ku, le mele che bollono, apre lo spazio ad una riflessione, che si fa affermazione e, quasi, rivendicazione, nei due ku conclusivi, creando sorpresa e, forse, anche un po’ di destabilizzazione che stimola la riflessione del lettore. Ed ecco il “miracolo haiku”: il componimento non finisce, non si conclude con l’haijin, che, infatti, non mette il punto fermo;  lo haiku continua la sua vita nell’animo di chi lo legge e lo medita.

Nell’opera di Kuroda è evidente anche come lo haiku sia un cammino, un viaggio o un pellegrinaggio esso stesso: è un lavoro continuo di ricerca sia esteriore, ma, soprattutto, interiore. L’haijin riesce ad esprimere tutto il suo mondo nello spazio di tre versi e ne ha fatto la sua forma di scrittura privilegiata, anche dopo averlo lasciato per un po’, è sempre ritornata allo haiku: “… ho provato diverse strade, per esempio quella di drammaturga, o di ceramista. Ardevo dalla voglia di trovare una via, un mezzo con cui esprimere me stessa. Provai dunque il teatro, la ceramica e altro, ma l’unico risultato ottenuto fu quello di ritornare al punto di partenza: mi resi infatti conto che soltanto lo haiku era il mio personale mezzo espressivo. Mi accorsi che esso mi permetteva di esprimermi liberamente, priva di costrizioni” [ii]. Interessante notare come la Maestra, nello spazio di tre versi, in diciassette more, riesca ad essere “libera e priva di costrizioni”. Il potere dello haiku è, a ben vedere, quello di scavare a fondo eliminando ogni orpello, ogni sovrastruttura, ogni “di più” per arrivare all’essenziale, ad essere come gli alberi in autunno che, privi delle loro foglie, mostrano orgogliosi al cielo la loro nuda struttura, bella nella sua assoluta essenzialità. Ed è a questa essenzialità che Kuroda aspira e che, a mio avviso, raggiunge proprio grazie al suo rapporto privilegiato con la natura e grazie ad essa può cantare anche avvenimenti come il terremoto del Tohoku del 2011 o le due giornate in ricordo delle vittime delle bombe atomiche: “Non riuscirei a mettere in versi ‘in maniera meccanica’ simili avvenimenti, ma canterei anche queste istanze sociali accompagnandole alla mia personale visione della natura. Metterei in versi il mio pensiero e il mio spirito critico con fermezza, senza utilizzare parole contro la società o il governo”[iii].

 

Molto attenta anche ai suoni che provengono dalle stagioni, la Maestra sa evocarli regalandoci nuove suggestioni che poi si trasformano nel sapore concreto di sentimenti:

Appendo una

campanella e soppeso

la malinconia[iv]

Una raccolta da leggere e da rileggere facendola penetrare nel profondo non solo se si vuole progredire nella scrittura dello haiku, ma, soprattutto, per approfondire la conoscenza di sé stessi per arrivare ad una “nudità” che possa poi essere vestita dei colori più “nostri”.

 

 

 

[i]  Da Kuroda Momoko, “L’odore dell’acqua”, edizioni dei Merangoli, a cura di Diego Martina, pag. 65

[ii] Ibidem, pag. 99

[iii] Ibidem, pag. 100

[iv] Ibidem, pag 41. La campanella è il fuurin tipico giapponese, in vetro o metallo, utilizzato durante la stagione estiva.

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