I giovani diventeranno vecchi
Vagare in gruppo nella sera salendo alla collina
con l’odore di vita stropicciato sulle mani
e tutti i pensieri lì fra menta e trifoglio
sospesi a brillare in un sospiro
che sogni di conquiste e di mete comprende
nell’immagine delle rondini stagliate
intorno a un aspro campanile viola
ai margini del borgo di scabra pietra calda
in negra tempesta d’ali oltre le querce
dentro la fiaccola d’un canto crepitante
E subito scoprire quanto può innalzare
la vertigine che s’arrotola alla luna di maggio
e s’adatta al gioco nuovo d’esser grande
di chi non vuole più aspettare
e impregna la corteccia della terra
del desiderio veloce e perforante del domani
E un’ansia di toccare insieme la certezza
una gazzella di felicità glauca o vermiglia
pure nello scompiglio – a tratti – del vento
nomade e signore nei flauti del tempo
che nel capriccio suo tracciante
muta inatteso incomprensibile impietoso
sempre al risveglio brusco sorprendente
Meglio con gli anni nei cortili invecchiare
facendo scongiuro dei giorni di pioggia
senza l’affanno di misurarsi con l’immenso
e poche parole rallegrate
dalle bugie dolci dei giorni passati
mentre la parva danza del meriggio
carezza lieve lieve le caviglie scarne
e per un poi ci si scorda delle Osterie Flegree
della falena d’ombra posata sopra il cuore
dello sfinirsi a frugare nel dolore
nell’inguaribile cercare pigro e spoglio
le cose morte che riaffiorano nei vivi.
La poesia sopra è tratta dalla raccolta “Spiniger”, libro del 2009 pubblicato da Per Versi Editore, piccola casa editrice di Avellino. Il titolo, una di quelle parole che per suono e durezza sembrano tedesche, è in realtà un termine latino che tradotto significa “urticante”, e descrive bene – micidialmente bene – uno dei lati più coloriti della personalità del suo autore. Come se fosse una di quelle avvertenze scritte in piccolo sulle etichette, o la dicitura sotto il nome di un eventuale biglietto da visita, “Spiniger” racchiude lo spirito identitario di un poeta che, come tanti colleghi, avrebbe meritato un pubblico più ampio e un’attenzione maggiore, quando era in vita.
Chi ne sta scrivendo, infatti, non conosceva Armando Saveriano. Anzi, il Maestro Saveriano; così veniva affettuosamente chiamato, non a torto, dai tanti autori che lui aveva contribuito a formare, tra incoraggiamenti e stoccate, nelle sue palestre poetiche.
È semplice, pertanto, immaginare quanto la notizia della sua morte, avvenuta il 12 gennaio appena trascorso, abbia scosso gli animi di coloro che umanamente o poeticamente avevano avuto modo di incrociarne il cammino. In primis, per la tempistica out of nowhere con la quale essa ha colpito. In secundis, per il vuoto, già enorme, che lascia e lascerà nella quotidianità degli amici ed estimatori, nonché nella vita culturale delle realtà letterarie da lui presiedute e frequentate.
Le testimonianze di cordoglio e di affetto nei confronti di Armando hanno rapidamente monopolizzato i contenuti delle comunità poetiche Versipelle e Poienauti, social spazi poetici da lui fondati e poi affidati nella parte gestionale, tra gli altri, al poeta Federico Preziosi, attuale portavoce, e allo scrittore Davide Cuorvo, che negli ultimi anni si era fatto carico di accudire personalmente il Maestro, afflitto da invalidanti problemi di salute, ospitandolo nella propria abitazione.
La morte di Armando Saveriano, e la già in atto riscoperta e rivalorizzazione della sua opera, porta con sé la riproposizione di temi di dibattito – fucine di riflessioni e polemiche – che, quando un autore viene a mancare, puntualmente rispuntano.
Tra questi, la sempreverde questione del perché un autore venga scoperto, riscoperto, o si affermi definitivamente soltanto dopo la propria morte (o grazie a essa, nei casi più estremi). A tale questione si potrebbe rispondere con una serie di ipotesi banali, tra cui quella secondo la quale la morte, in quanto espressione più spietata della finitezza del nostro essere, ci porta a esternare reazioni in sua antitesi. Da qui i riti, gli omaggi, il tentativo di contrastare l’impietosa evidenza della scomparsa e dell’irreversibilità di essa. Non è raro, tuttavia, imbattersi in manifestazioni di cattivo gusto; riflessi o deformazioni di quella vanity press che, specie negli ultimi anni, i social hanno portato a nuovi livelli. Della serie: “È morto Tizio, ricordiamolo parlando di me”. Ma tale questione è un argomento complesso, che qui, per ragioni di tempo e spazio, non può essere affrontato in maniera adeguata.
Un’altra questione – a mio avviso più interessante – che le morti degli scrittori sono solite sollevare è quella relativa alla reperibilità delle loro opere. Parlando con Federico Preziosi della possibilità di scrivere un pezzo su Armando Saveriano ho difatti appreso che la maggior parte dei suoi libri, purtroppo, risultano fuori catalogo (per quanto, di buon contrappasso, gli inediti da riscoprire e riorganizzare sembrino essere, invece, innumerevoli). Ciò potrebbe rappresentare un problema spinoso per chi volesse leggere per la prima volta l’opera poetica del Maestro, spalmata su diverse sillogi e plaquette, tra cui la già citata “Spiniger”, “Versoñador” (Laceno, 2010), “Lomografia punto 6” (Per Versi Editore, 2011) e la più recente “Perfuncta vita”, edita nel 2015 da Delta 3. Tuttavia, come ribadito dallo stesso Preziosi in un passo del comunicato redatto in memoria del poeta, la scomparsa di Armando costituisce anche un’occasione per “Tirare fuori dai cassetti le copie cartacee dei suoi libri”, al fine di rimettere concretamente in circolo i suoi versi e contrastare così il problema dell’irreperibilità.
Problema arginato soltanto parzialmente, nel mio caso, e solamente grazie alla disponibilità di Preziosi, che mi ha spedito per mail la raccolta breve “Perfuncta vita”, un’opera il cui titolo rimanda ai versi conclusivi del III libro del “De Rerum Natura” di Lucrezio e a quella “trascorsa vita” che tale risulterà per tutti, prima o poi, e che in parte lo è già ora, se si osserva da lontano – da una dimensione fuori dal tempo – il susseguirsi e il riproporsi di quelle civiltà, anime e culture che animano la storia del mondo. Le sei poesie della plaquette costituiscono un compendio dello stile vulcanico di Armando, il quale, fondendo influenze surrealistiche, dadaistiche e futuristiche, procede scevro di punteggiatura verso il compimento della tenerezza.
Un tema, quello della vita eseguita, che, alla luce della scomparsa di uno dei suoi più arditi cantori, non può non suscitare suggestioni e riletture degli eventi. Anche dei più insignificanti. Forse è soltanto un contorto e inconscio meccanismo di difesa operato dalla mente, un moto istintivo atto a collegare i punti avanzati, chiudere il cerchio, individuare il disegno dietro le fanfare e i marasmi. “Forse le religioni sono illusioni, ma sono illusioni importanti e profonde”, per dirla con le parole del drammaturgo Hanif Kureishi. E una poesia, anche la meno religiosa, talvolta può assurgere a un ruolo che trascende il semplice campo della letteratura e farsi preghiera. E, in casi ancora più rari, compimento di antiche profezie.
La sopracitata “I giovani diventeranno vecchi” è stata l’ultima poesia interpretata da Armando Saveriano. L’ha letta la sera del 5 gennaio 2022, nell’ambito del reading “Le azzurre braccia della luna”, abbinandovi la lettura di una poesia di Aldo Nove e una piccola, magistrale lezione sulla poetica di quest’ultimo. Nel video appare più vecchio dei suoi 67 anni. Più stanco, più provato, come se una parte di lui stesse lottando sottotraccia contro lo scadere del proprio giorno. Ma osservandone la verve incrollabile e la luce nello sguardo, specie durante la declamazione delle poesie, si rimane rapiti dalla sua vitalità. A posteriori, si potrebbe dire che la sua performance si sia rivelata essere un esemplare adempimento all’imperativo di Dylan Thomas, quello contenuto nei versi della celeberrima “Do not go gentle into that good night”. Armando Saveriano non se n’è andato docile in quella buona notte, ma ha infuriato contro il morire della luce, facendo poesia fino all’ultimo.
Buon viaggio, Maestro.