“L’assiuolo” di Giovanni Pascoli: lo smarrimento dell’uomo davanti al dolore

“L’assiuolo” di Giovanni Pascoli: lo smarrimento dell’uomo davanti al dolore

 

«Dov’era la luna?»

Questo l’incipit de “L’assiuolo” la poesia di Giovanni Pascoli tratta da “Myricae”. Un inizio che disorienta: a prima vista può sembrare la descrizione di un notturno lunare tanto caro ai poeti, ma che, ad una lettura più attenta, si carica subito di mistero.

La luna, infatti, non si vede, c’è il suo chiarore diffuso -«ché il cielo/notava in un’alba di perla»- e tutta la natura si protende a cercarla -«ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio vederla»- in un processo analogico di personificazione in cui uomo, esseri animati e inanimati, sono pervasi dalla stessa inquietudine.

Quella che sembrava la descrizione di un paesaggio campestre tranquillo e pacificante, diventa subito simbolo del dolore e del turbamento dell’io lirico e il verso dell’assiuolo indicato con l’onomatopea “chiù” e che giunge da lontano e senza coordinate spaziali,  diviene, in un mirabile climax ascendente che si declina nelle tre strofe, “una voce dai campi”, “singulto”, “pianto di morte”, svelando la sua funzione epifanica di sinistro presagio.

A rendere più suggestiva, incerta e  “espressionista” la descrizione del paesaggio circostante, il prevalere, su quelle visive, delle sensazioni uditive che aumentano il senso di indeterminatezza: il lettore viene catapultato in un luogo che perde tutti i caratteri di familiarità; l’ambiente circostante assume una connotazione oscura in cui si proiettano i drammi mai risolti che risiedono nell’inconscio e che prendono vita nel “cullare del mare” in cui il riferimento alla culla, al nido familiare e alla tranquillità dell’infanzia è effimero e ingannevole, come ci svela il “fru fru tra le fratte” che è simbolo di un agguato nascosto e pronto a colpire: ed ecco allora “il sussulto del cuore” («sentivo nel cuore un sussulto») che è “eco d’un grido che fu”.

Il dolore passato non lascia riposo al poeta: non c’è consolazione, né elaborazione e non potrà mai esserci rassegnazione; anche quando afferma ne “La mia sera”: «Oh stanco dolore riposa!/La nube nel giorno più nera/fu quella che vedo più rosa/nell’ultima sera» Pascoli auspica la pace nella “fatal quiete” di foscoliana memoria, perché sa benissimo che i suoi fantasmi saranno sempre inopportunamente invadenti nella sua vita e nella sua poesia. Ma è nell’ultima strofa che il significato connotativo del testo disvela tutta la sua potenza evocativa, grazie al sapiente uso dell’analogia di cui il nostro è maestro.

«Su tutte le lucide vette/tremava un sospiro di vento»: i profili delle alture circostanti sono illuminati dalla luna, il vento sospira e trema. Ancora una volta, Pascoli si serve di un procedimento espressionista e carica l’ambiente che lo circonda delle suggestioni del suo spirito tormentato: il sospirare e il tremare sono propri dell’uomo , ma nello smarrimento che lo permea i confini tra l’umano e il non umano e tra l’umano e “l’oltre” sono labili e incerti ed ecco allora che le ali delle cavallette sono “finissimi sistri d’argento” che, senza preavviso,  catapultano il lettore nell’antico Egitto, nel culto della dea Iside, dea della resurrezione, nel momento in cui ella riporta in vita il suo sposo Osiride. Per un momento sembrano riaprirsi le porte della morte e quasi si possono toccare i cari che sono aldilà, ma l’interrogativa retorica finale «tintinni a invisibili porte/che forse non s’aprono più?… » non lascia speranza alcuna e l’unica certezza che resta al poeta e all’uomo è «quel pianto di morte…/chiù…»

 

 

L’assiuolo

 

Dov’era la luna? ché il cielo
notava in un’alba di perla,
ed ergersi il mandorlo e il melo
parevano a meglio vederla.
Venivano soffi di lampi
da un nero di nubi laggiù;
veniva una voce dai campi:
chiù

Le stelle lucevano rare
tra mezzo alla nebbia di latte:
sentivo il cullare del mare,
sentivo un fru fru tra le fratte;
sentivo nel cuore un sussulto,
com’eco d’un grido che fu.
Sonava lontano il singulto:
chiù

Su tutte le lucide vette
tremava un sospiro di vento:
squassavano le cavallette
finissimi sistri d’argento
(tintinni a invisibili porte
che forse non s’aprono più?…);
e c’era quel pianto di morte…
chiù

 

 

Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855 in una famiglia benestante. Quando ha solo 12 anni, il padre muore assassinato: anche se, molto probabilmente, in molti conoscevano l’identità dei responsabili del delitto e il mandante, nessuno verrà mai punito. Da quel momento, una serie di lutti si abbatterà sulla famiglia Pascoli, condizionando per sempre la sensibilità di Giovanni  che stringerà un legame sempre più stretto con le sorelle Ida e Maria per ricostituire quel nido familiare che brutalmente gli era stato distrutto. Sarà insegnante di latino e greco nei licei e successivamente docente universitario per interessamento del poeta Giosuè Carducci.

La depressione lo accompagnerà fino alla morte, avvenuta per tumore allo stomaco il 6 aprile 1912.

Giovanni Pascoli è uno dei più grandi poeti decadenti del panorama letterario italiano.

 

 

 

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