Le assenze di Takahashi Mutsuo

Le assenze di Takahashi Mutsuo

Quello che mi ha spinto ad approfondire la poetica di Takahashi Mutsuo, poeta classe 1937 tra i più famosi e prolifici esponenti della poesia contemporanea giapponese, è il filo invisibile che unisce il tema a lui più caro, quello dell’assenza, a un uso del verso poetico straniante e fortemente evocativo.

Poeta dal vissuto tormentato, segnato da un’infanzia difficile durante la quale ha visto la propria famiglia sfaldarsi nel segno di lutti, separazioni forzate e tentati sucidi, fin da giovane Mutsuo ha integrato nella propria opera, e quindi alla propria orientale identità letteraria, elementi della tradizione occidentale.

Il suo interesse per la cultura greca e latina, che forgerà i suoi primi testi poetici, è poi sfociato in una viva fascinazione per il cattolicesimo, religione alla quale non arriverà mai a convertirsi ufficialmente, ma da cui prenderà in prestito topos e costruzioni letterarie.

L’assenza, dicevamo, intesa come mancanza e silenzio – “il silenzio infinito di Dio” come direbbe Sorrentino –, è la colonna portante che anima la sua vocazione letteraria. O, perlomeno, è il leitmotiv che io ho individuato leggendo le sue poesie, dietro le singole e sempre diverse impalcature.

Perché, nella sua lunga e prolifica carriera, attraverso il suo verso libero, Mutsuo ha sì affrontato argomenti che assegnano le sue poesie al genere della poesia civile, ma lo ha fatto senza mai rinunciare alla sua vena fortemente intimista, a tratti biografica. Ed è questo che rende i suoi testi così vicini alla sensibilità di chi legge.

In essi si scorge l’universalità del dolore indotto dalla perdita di ciò che è più caro a prescindere dal proprio retroterra culturale. Nonché la disperazione che porta alla ricerca costante e inappagabile di una felicità tossica, che il poeta-uomo, per sopravvivere emotivamente, si costringe a trovare in elementi che nella loro miseria azzerano lo scarto tra spirito e materia. Non ci si accontenta perché ci si vuole accontentare. Ci sia accontenta perché ci si deve accontentare. Nel farlo è possibile incappare in momenti di estasi che ricalcano la beatitudine divina, ma il mezzo usato dal divino sarà sempre di segno opposto a quello che tradizione e pregiudizio vorrebbero.

È così che Mutsuo rinviene e fa rinvenire al lettore la bellezza struggente delle piccole cose. Essa si nasconde anche e soprattutto laddove la società vi scorge il degrado. Si prenda a esempio la poesia 1955 inverno:

 

 

Gabinetti pubblici in una fredda mattina

il tepore che si diffonde come foschia

 

io         vagabondavo

sporco             solo      affamato

 

i platani erano spogli

pochi i passanti

 

un cane seguiva

il camion della spazzatura

 

mentre la mia mano destro      scivolava attraverso

lo strappo nella tasca dei pantaloni

 

io immaginavo nel mio cuore affamato

due amanti ardenti      nei gabinetti pubblici

 

la luce              penetrando come una lama dolorosa

fece splendere il fango che avevo di fronte

 

 

È evidente qui la denuncia di una condizione di solitudine, abbandono e povertà. E, con essa, una critica alla cultura del proprio paese, che stigmatizza in maniera patologica il fallimento sociale. Ma pur immerso nella propria solitudine, o forse grazie a essa, il soggetto del componimento riesce a individuare la bellezza del creato in quei cardini che in altri contesti sarebbero motivo di vergogna.

Paese oltremodo pudico, il Giappone, Mutsuo lo mette a nudo prendendo a prestito un luogo fetido – i bagni pubblici – e lo usa come sfondo per raccontare la bestialità dell’amore e dell’umanità. Lo fa per liberarla dal giogo dell’etichetta, lo fa per esaltare la volontà dell’uomo di continuare a meravigliarsi – e ad amare – nonostante la bruttezza che lo circonda.

Ma tutto questo ha un prezzo. Esso è incarnato dalla luce, che incorporea e accecante produce una bellezza altrettanto intangibile, altrettanto inarrivabile, e che è metafora della miseria nella quale versa il poeta, osservatore a cui è negato il contatto, la vicinanza, ed è relegato a una condizione di assenza. Assenza dalla vita e dall’amore, che potrebbe arrivare a essere assenza di vita e amore, se non ascoltasse e vivesse il moto vitale indotto dallo sguardo poetico – poi tradotto, nell’economia del testo, nell’atto della masturbazione, l’atto sessuale più triste e consolatorio.

Proprio perché talvolta incolmabile, l’assenza è per Mutsuo un portale attraverso il quale giungere al suo contrario.

Lo fa in particolare in una poesia che s’intitola L’albero che non c’è, dove affronta tale tema   utilizzando categorie care alla filosofia presocratica. Parlando attraverso negazioni, descrivendo cose che non ci sono, Mutsuo elogia il potere della mente come fucina creativa. Le sensazioni prodotte dall’interiorità possono acquisire, se coltivate, una forza di grande impatto. Possono arrivare a creare, come il testo recita, l’immagine di un albero che allo stesso tempo è lì e non è lì. E ciò permette di superare la contraddizione logica. Ciò consente di rendere concreta la possibilità del cosiddetto terzo escluso. Ma solo, come ribadisce nel verso che fa da chiusa, se lo si vuole – “se vogliamo parlare di un albero che non c’è”.

La poesia per Mutsuo è un atto creativo che risponde alla volontà e alla necessità. Ma per arrivare a essere poesia, un testo in versi ha bisogno di attingere a cose al di là del mondo. E qual elemento incarna di più l’aspetto intangibile dell’esistenza – quale elemento incarna meglio l’assenza della vita (celebrandola allo stesso tempo) – della figura dei morti? È attraverso di loro che l’assenza cantata da Mutsuo rende viva la sua parola poetica. E il testo più rappresentativo, in questo senso, è la lirica Questa casa, della quale riportiamo un estratto:

 

Questa casa non è la mia casa             è la dimora dei morti

un amico sensibile al mistero che talvolta viene a trovarmi     ne è testimone

i personaggi senza colore e sostanza   che si incrociano sulle scale

sono sereni      e non mostrano alcun rancore è strano

mi dice            ma non è affatto strano           perché sono io che lo voglio

anche se una persona cara muore        e vado ai suoi funerali

non capita mai che al ritorno               porti con me il sale purificatore

e mentre butto via di nascosto il piccolo involucro

mormoro

vieni da me      se ti fa piacere

in cambio        dammi una mano per il mio lavoro

è proprio così              il lavoro di poeta non si può fare

da soli

ha bisogno dell’aiuto dei morti

 

Un testo, dicevamo, che assurge a manifesto poetico di un autore che sa unire come pochi altri verità e artificio retorico, bellezza e brutalità, acume e semplicità. Il suo lirismo è così profondo da trascendere l’apparente struttura prosastica e stagliarsi nei versi formati dalle singole parole e negli spazi che a loro volta esprimono la distanza, ciò che separa la vita dalla morte, e che la poesia colma, unisce, supera.

E se Oppenheimer, allo scoppio della bomba atomica da lui inventata, disse di essere diventato Morte, il distruttore di mondi, Takahashi Mutsuo nella poesia Il mio nome scrive: “Il mio nome/ è quello di un essere che divora la morte”. E potrà suonare un confronto forzato e capzioso, quello che sto attuando ora, ma trovo affascinante la dicotomia suggerita da esso. Da un lato la scienza che da utile e perseguente la vita si concretizza in uno strumento di morte. Dall’altro la poesia che da inutile e avvalendosi della morte si realizza in uno strumento di vita.

Una vita che manca sempre di più, nel mondo d’oggi.

 

Le poesie citate in questo articolo sono tratte dall’antologia “Poeti giapponesi” edita da Einaudi, a cura di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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